- da casa a Carson, Los Angeles
Ed eccoci qui, con il nostro bagaglio e la nostra emozione per un viaggio così lungo ed impegnativo. A chi dice che è stata una follia (in termini economici non è lontanamente paragonabile a nessun altro viaggio affrontato finora), rispondo che ha ragione.
Ma anche che la vita è adesso. Che noi siamo adesso.
Partiamo da casa praticamente alle 23.30 con mio fratello e cognata, dopo una pizzata per salutarci, e raggiungiamo Civitanova Marche, dove aspettiamo il bus dell’1.30 di Cardinali Autolinee che ci porterà all’aeroporto di Fumicino. Appena saliti a bordo, per fortuna, crolliamo come tre pere cotte per almeno un paio d’ore!. L’arrivo, previsto per le 6, viene anticipato di mezz’ora, e alle 5.30 del mattino siamo già fuori dal bus, un po’ assonnati. Raggiungiamo il terminal, espletiamo le operazioni di check-in, da brava barbona mi lavo i denti nel bagno dell’aeroporto per ricordarmi che sono viva, poi caffè al bar.
Dopo ore di attesa, finalmente partiamo. In aereo ci danno da mangiare ogni tre ore come si fa con i bambini, così non protestiamo.
Guardiamo film, chiacchieriamo, ammiriamo la costa selvaggia e innevata della Groenlandia in volo, seguiamo lo spostamento dell’aereo sul trip computer con grande interesse, tentiamo di dormicchiare ma niente... non se ne viene a capo. Non sappiamo né come né perché, ma alla fine l’aereo atterra all’aeroporto internazionale di Los Angeles, dopo 12 ore e mezzo. Sono le 13 ora locale, siamo partiti alle 9... insomma abbiamo viaggiato all’indietro e abbiamo già collezionato praticamente centordici ore senza dormire. Smaltiamo le procedure per il controllo passaporti, il simpatico poliziotto che ci esamina si chiama Salcedo, un messicano che vive negli Stati Uniti, ed io non perdo occasione per tentare di rinfrescare il mio spagnolo. Come consuetudine, ci chiede cosa facciamo in USA, quindi la nostra fiera risposta è un bel tour in camper attraverso i grandi parchi dell’Ovest e la California. Siamo entusiasti. Ci saluta, ci augura buon viaggio e dice che siamo molto simpatici.
Abbiamo già portato a casa la prima vittoria.
Il sonno inizia a farsi sentire ma dobbiamo cercare di resistere fino a stasera, altrimenti avremo il fuso orario sballato per giorni. Al box informazioni dell’aeroporto riusciamo a chiamare CruiseAmerica, il nostro RV rental (che andava necessariamente avvisato il giorno prima del ritiro del camper), e concordiamo il ritiro per domani alle 12. Dopo una piccola disavventura con Uber, e nel mezzo una chiacchiera con un poliziotto della sicurezza aeroportuale sul suo viaggio in Italia, riusciamo a farci portare a Carson da un Uber asiatico. Sembra Bruce Lee ed è di pochissime parole, ma le tariffe sono estremamente competitive (arrivano fino al 50% in meno rispetto ai taxi).
Arriviamo all’Econo Lodge, un classico motel americano, a circa 2 km da CruiseAmerica (dove prevediamo di arrivare a piedi con calma domani). Il simpatico receptionist con cui attacchiamo bottone è tutto un sorriso, ci racconta di essere originario delle Fiji e poi, non si sa come, inizia a conversare con il babbo del suo passato da camionista. Trovandosi di fronte un ex rappresentante di veicoli industriali, amicizia è subito fatta, e conversano anche animatamente! Dopo aver lasciato i bagagli ci prendiamo un po’ di tempo per fare quattro passi e sgranchire le gambe e raggiungiamo un supermarket a circa un miglio. Compriamo qualcosina da mangiare e rientriamo al motel. Al resto penseremo domani.
Giovedì 12 settembre
- ricognizione a Carson (10 miglia intorno all’isolato)
La mattinata inizia sostanzialmente presto… Sarà il jet lag, sarà l’adrenalina, ma ci svegliamo praticamente tutti verso le 6.30. Tutto sommato ci sentiamo freschi e riposati, e ormai il sonno se n’è andato, quindi dopo briefing, doccia e varie, scendiamo in reception per la frugale colazione compresa nella tariffa del motel. Ah, il caffè sbobboso americano, come mi mancava!
Usciamo dal motel, chiedendo la possibilità di lasciare i bagagli in camera che ci viene accordata senza problemi, e ci incamminiamo a piedi verso il nostro rental office.
E’ una bella giornata calda, e fatichiamo un po’ per arrivare, ma la strada non è moltissima ed abbiamo bisogno di camminare, dopo il viaggio in aereo. Raggiungiamo la meta in largo anticipo, ci piazzano a vedere un video sul funzionamento del camper (in inglese, ovviamente). Poi firmiamo il contratto, depositiamo 500,00 $ come cauzione richiesta con carta di credito ed aspettiamo qualche minuto. Ed ecco che finalmente arriva il nostro camperazzo, ovviamente brandizzato CruiseAmerica con un super adesivo di un parco nazionale su tutta la carena esterna.
Ha uno stile molto anni Ottanta, dall’aspetto squadrato. La mansarda, vista dall’esterno, è proprio brutta, poverina. All’interno invece recupera molto in estetica: è bello e spazioso e la trio tenue color fango/nero/tortora è estremamente rilassante. Tra le pecche, la prima cosa che notiamo è il lavandino (ino-ino) del bagno… fuori dal bagno. Il kit di pentole e stoviglie richiesto ha piatti e tazze di porcellana, pesantissime, che occupano un ripiano intero: decisamente non sono per noi, abituati alla melamina, ma ok. Tra le facilitazioni d’uso c’è un buon generatore (per il quale abbiamo pagato l’uso illimitato, ma ovviamente beve propano come un avvinazzato), che si avvia comodamente con un tasto dall’interno. Una bella plancia mostra i consumi di acqua e propano e del livello di acque nere (cacca e piscia) nel serbatoio dedicato. La vergara apprezza il lavandino in acciaio lucido che si asciuga in un attimo, mentre io sentenzio che i materassi mi sembrano molto comodi. Un altro grosso svantaggio è la mancanza di prese di corrente. O meglio, a parte la presa da 12V (quella classica dell’accendisigari), che funziona anche a camper spento, le altre poche prese (usb e 110V) hanno bisogno del generatore acceso. Niente inverter o simili. Praticamente, la batteria di servizio del camper accende solo le luci.
Ci adatteremo.
La tipa ci dettaglia in mezz’ora tutte le caratteristiche, tutto in inglese, il babbo cerca di esprimersi e fare domande, quella peraltro non sorride manco a pagarla ma va bene lo stesso, che ce ne frega, stiamo per partire per l’avventura più grande. Prendiamo i kit di lenzuola e piumone, le sedie da abbinare al tavolo già in dotazione nel gavone... a mezzogiorno e mezzo siamo fuori dall’RV rental. Torniamo al motel a riprendere i bagagli, salutiamo ancora il simpatico receptionist delle Fiji e finalmente si parte.
Prima tappa, e sappiamo che ci porterà via tutta la giornata, è Walmart, una delle più grandi catene americane di supermercati. Non avendo nulla a bordo, ci serve praticamente tutto. Zucche di Halloween estremamente variopinte fanno già bella mostra nelle ceste, in vendita c'è qualsiasi genere di pan carrè e panini da hot dogs, ma di pane "ufficiale" nemmeno l'ombra, frutta e verdura costano uno sproposito, paragonate ai prezzi italiani, ma non possiamo esimerci o ci ritroveremo ad acquistare qualsiasi sorta di schifezza che mangiano da queste parti. Vediamo cose che voi umani non potete nemmeno immaginare, e districarsi per trovare qualcosa di decente è un’impresa che ci porta via tre ore buone. Riusciamo a fare pranzo tipo alle 16.30, tentiamo di disfare parzialmente le valigie, poi torniamo da Walmart per tentare di acquistare una scheda sim e poter comunicare con il mondo. Le ragazze al desk mi sembrano molto poco competenti, non sanno e non possono aiutarci perché, secondo loro, i nostri telefoni sono bloccati per gli Stati Uniti, non possono farci provare una scheda sim per verificare, sembrano spaesate quanto noi. Rinunciamo, ma è già tardi. Per fortuna decido di dare un’occhiata ad internet (a scrocco con la connessione di Walmart) per cercare una soluzione, e la trovo: il negozio di AT&T di Lakewood, che tra l’altro chiude alle 21. Sembra una soluzione ideale, sono le 19.30 e pensiamo di cavarcela con una mezz’ora, quindi ci dirigiamo lì come ultima spiaggia. Entriamo spaesati ed un simpatico ragazzotto dai tratti sudamericani ci accoglie e ci chiede subito se abbiamo bisogno. Il punto vendita è ampio, con tavolini tipo lounge bar, e molto luminoso. Noi esponiamo problema e richieste, lui annuisce tranquillo e si piazza seduto con noi ad un tavolino per illustrarci le varie soluzioni. Optiamo per un illimitato di 30 giorni con possibilità di 10 GB in hotspot: significa che mamma immolerà il suo tablet e farà connettere anche me e il babbo, all’occorrenza. Io non voglio essere troppo social, qualche foto su Instagram e una telefonata via WhatsApp al giorno e sto a posto. Il babbo anche meno. Dunque questo piano tariffario da $ 85,00 ci sembra la soluzione ideale per il momento. Nel frattempo Gerardo, il nostro “assistente”, ci chiede se siamo portoghesi. Rispondo che siamo italiani, subito spalanca gli occhi, “Io sono messicano, nato in America da genitori messicani!”, e ovviamente iniziamo a parlare spagnolo. Andiamo avanti almeno per un’ora, per tutto il tempo in cui, per colpa di un problema del server, non riesce ad attivare la nuova sim nel tablet di mamma. Eppure, senza perdersi d’animo, lui insiste a contattare il servizio clienti. Alle nostre scuse per fargli perdere così tanto tempo risponde sempre che non c’è problema, che “comunque preferisco stare qui con voi che con altra gente!” e alla fine, mezz’ora dopo l’orario di chiusura, riesce a risolvere il problema. Insomma, è stato un fine giornata lunghissimo ma finito bene. Punto vendita super consigliato, Gerardo gentilissimo (come del resto gli altri, che ho potuto vedere all’opera nelle due ore che siamo stati lì!) ed estremamente disponibile... e ci ha pure scontato i 10 dollari in più per l’attivazione della sim!
Chiaramente dobbiamo ancora:
- trovare un posto per la notte
- mettere a posto quasi una valigia intera (la mia!)
- rifare un letto
- cenare
- capire perché diamine il frigorifero non funziona
Ci sistemiamo in un angolo nel parcheggio dell’enorme Lakewood Center (un centro commerciale adiacente al negozio di AT&T), iniziamo a fare ordine, smantelliamo la valigia e portiamo nel gavone tutto ciò che non serve. Dopo un’ora il frigo pare non voler funzionare, il freddo non arriva nemmeno dal freezer ma decidiamo di tentare e lasciare l’impostazione che abbiamo selezionato, cioè ON su GAS. Dicono che il frigo può impiegare anche 8-10 ore per raggiungere la temperatura, quindi proviamo ad aspettare domani.
Non ci resta che provare a dormire.
Venerdì 13 settembre
- da Carson a Salton City (292 miglia)
Nonostante la stanchezza accumulata, anche stamattina siamo tutti svegli alle 6. Anche se mi pare decisamente presto! Comunque, a parte un bel mal di testa che svanisce all’arrivo del caffè, siamo carichissimi. Il frigo sembra finalmente funzionare (despacito, ma finalmente ha rinfrescato i prodotti all’interno!), per noi mancano ancora alcune cose da mettere a punto, ma ci penseremo strada facendo. Considerando la nostra solita organizzazione, avere un camper a noleggio in cui non c’è praticamente nulla è stata una bella impresa.
Alle 9, dopo aver fatto colazione e constatato che abbiamo dormito tutta la notte con il finestrino del posto passeggero spalancato (intelligenza level: up), siamo già in strada verso San Diego. Percorriamo la CA91, comodissima superstrada a ben cinque corsie stipate di macchine: il fondo stradale fa talmente schifo che sfida le buche nella nostra capitale, è un sobbalzo continuo! E sì che gli altri mezzi sembrano filare lisci come l’olio! Per noi comunque è un divertimento continuo, soprattutto guardare tutti gli iconici camion americani che arrivano fino a 25 metri di lunghezza, con le cabine coloratissime ed i caratteristici “comignoli”. Che bestioni! Per non parlare dei raccordi e dei cavalcavia, che guardando sotto si scoprono altre strade a cinque o sei corsie per ciascun senso di marcia. E’ proprio un mondo a cui non siamo abituati. Sembra assurdo, ma non vedo l’ora di essere nelle strade solitarie dell’Arizona. Sulla lunga distanza, comunque, si avverte la sommarietà delle rifiniture del camper, lo scricchiolio dei mobili, il tintinnio del piano della cucina… insomma, na ciofeca, ma finché non si rompe nulla, va tutto bene. Finalmente, peraltro, il babbo ha modo di sperimentare un po’ meglio questo cambio automatico: pur essendo una caratteristica americana, non è dei migliori come funzionamento, ma ci si adatta tranquillamente, tanto che dopo un’ora di guida è già diventato ignorante come gli automobilisti californiani, che si infilano in ogni dove.
Arriviamo a San Diego, anzi per l’esattezza nei pressi di Balboa Park, e parcheggiamo senza difficoltà a bordo strada per un paio d’ore. Ci sono circa 28°, un caldo umido tipico delle zone costiere, ma ci incamminiamo senza paura verso l’entrata del quartiere più spagnolo della California. Questo spazio è il polmone verde della città, dove la gente viene a cercare un po’ d’ombra nelle giornate più calde, ma anche dove sono raccolti i principali musei. Non a caso, San Diego è la città più popolosa della California dopo Los Angeles, e la sua storia incrocia le radici con quella del confinante Messico.
Il Balboa Park è uno dei parchi più antichi degli Stati Uniti e risale a metà Ottocento. Nel 1915 ospitò l’esposizione nota come Panama-California per celebrare l’apertura del canale di Panama, e dopo la grande crisi del 1929 vi si svolse la California Pacific International Exposition allo scopo di riavviare l’economia. I bellissimi edifici in stile coloniale spagnolo sorti per queste manifestazioni sono ora musei. Tra i più belli ci sono sicuramente la Casa del Prado, l’edificio con la facciata più bella del quartiere, e il Museo delle Arti Fotografiche e dei Modellini di Treni, di fronte alla Laguna de las Flores. Già si respira un’architettura fantastica che sembra di stare a Siviglia, poi questo spazio adornato di fiori e ninfee attira decisamente la mia attenzione.
Sabato 14 settembre
- da Salton City a Lake Havasu City (290 miglia)
Anche oggi la giornata inizia all’alba, ma alla fine, per quando ci si organizza e si parte, è l’ora di sempre! La prima cosa è comunque sfidare il distributore di benzina adiacente al Casinò. Non sapendo bene come funziona l’automatico, ci facciamo aiutare dalla flemmatica ragazzotta del bar, che parla spagnolo come tutti in questa “terra di confine”. Dopo le dovute conversioni tra galloni e dollari, appuriamo che abbiamo fatto il pieno pagando un litro di benzina circa 77 centesimi. Peccato che il camper consumi il doppio del nostro, quindi automaticamente il risparmio non esiste.
Le strade infinite e dritte attraversano la San Bernardino National Forest in questo paesaggio contornato di montagne dai colori caldi, palmeti a perdita d’occhio e casinò che sbucano nel mezzo del nulla.
Tiriamo verso Pioneertown, immerso nella Yucca Valley: improbabile ricostruzione di un set cinematografico western voluta da un visionario produttore di Hollywood nell’immediato dopoguerra. Il tempo di una passeggiatina tra gli edifici e i saloon che ben si sposano con il paesaggio circostante (sembra il Far West di Mirabilandia a dire il vero!) e ripartiamo verso Twentynine Palms, una delle porte d’ingresso al Joshua Tree National Park. Entriamo infatti dall’Oasis Visitor Centre, dove acquistiamo anche la tessera parchi per $ 80,00, che permette il transito ad un veicolo con 3 persone in tutti i parchi americani (tranne le riserve navajo). Se si programma la visita di 4 o più parchi, già si risparmia e conviene nettamente la tessera (tra l’altro, ha un anno di validità ed è cedibile ad un secondo visitatore). Le ragazze al desk, cortesissime, ci danno tutte le info necessarie alla visita, e intorno all’ora di pranzo entriamo ufficialmente nel nostro primo parco nazionale americano. Anche stavolta speriamo di cavarcela con un paio d’ore... noi ingenui!
Gli spazi sono ampi, ma soprattutto il paesaggio è variegato ed assolutamente affascinante: la zona delle Jumbo Rocks è quella più maestosa, poi i grossi massi levigati lasciano il posto alla zona più desertica con i famosi Joshua trees, così chiamati dai primi mormoni che si insediarono nella zona in onore del profeta Joshua del Vecchio Testamento. I grossi rami di questo albero, protesi verso l’alto, ricordavano ai mormoni le braccia di Mosè levate al cielo verso Joshua (Giosuè). Forse però una menzione merita anche il famosissimo album degli U2, (“The Joshua Tree”, appunto), la cui copertina raffigura proprio la band con questi alberi sullo sfondo. Poiché il Joshua tree cresce in condizioni climatiche estreme, per la band significava speranza e rinascita. L’iconografico album in questione contiene quelli che a posteriori sono considerati i capolavori degli U2. Alla fine, dunque, pare che non abbiano sbagliato.
La crocierina su quattro ruote all’interno del parco è meravigliosa, mi affaccio al finestrino della mansarda del camper con le braccia ciondoloni e riesco a fare foto stupende.
Ci fermiamo nei pressi del parcheggio per Ryan Mountain per il pranzo, poi raggiungiamo Keys View, il punto più alto e suggestivo del parco, da dove si ammirano strati e strati di montagne. Peccato che la zona industrializzata della California del Sud tiri su costantemente smog, e questo faccia arrivare foschia persino qui nel parco nazionale, offuscando parzialmente la vista. La giornata soleggiata e caldissima comunque mantiene il cielo azzurro e limpido, e le foto riescono a rendere giustizia ai colori del paesaggio. Torniamo indietro, arriviamo fino al Cholla Cactus Garden, un grazioso boschetto di mini cactus che sembrano scovolini da bottiglia e si estendono per ettari ed ettari. Deliziosi!
Davvero tanto caldo.
Domenica 15 settembre
- da Lake Havasu City a Flagstaff (271 miglia)
Dopo una notte quasi insonne causa caldo, alle 6 siamo tutti svegli... con 30° esterni. Si preannuncia un’altra giornata bollente... io comunque sono abbronzata da questi due giorni di sole!). Decidiamo di ottimizzare il tempo e alle 7 o poco più siamo pronti a partire. Rabbocchiamo il serbatoio della benzina al vicino distributore... 2,68 $ a gallone praticamente 63 centesimi a litro. Manco il gpl a casa nostra!
Andiamo verso Parker Dam lungo la Riverside Drive, strada panoramica che si affaccia sulle montagne rosse piene di sfumature bellissime (ed il sole ad est, sbattendo sulla roccia, crea dei giochi di luce che le rendono ancora più belle). Due foto alla diga, poi proseguiamo verso il London Bridge, una kitshata che solo gli americani potevano concepire: negli anni Sessanta il vecchio London bridge di Londra (costruito nel 1831) fu venduto all’imprenditore americano fondatore di Lake Havasu City per un milione di sterline.
Essendo destinato alla demolizione, questo tizio si fece carico di acquisto, trasporto e ricostruzione del ponte per un totale di quasi dieci milioni di dollari, al fine di sviluppare l’economia della sponda ovest del fiume ed attirare turisti. Nonostante sia una kitshata clamorosa, pare abbia funzionato.
Tenendo conto delle giornate calde che ci aspettano, decidiamo un’improvvisa deviazione attraversando l'Arizona il più rapidamente possibile: anziché buttarci a nord verso Las Vegas come da programma, andiamo verso ovest, risalendo il fiume fino a Kingman, avamposto della storica Route 66: un grosso cartello, da parte a parte della strada, ci accoglie. Ci fermiamo per qualche foto nei pressi del Locomotive Park, uno spazio verde noto per ospitare (come dice il nome stesso), una vecchia ed enorme locomotiva a vapore, la Santa Fe 3759, per la gioia del babbo che non perde occasione di salirci sopra. Ci sono diversi camper parcheggiati lungo la strada, e gruppi di motociclisti per i quali questa cittadina è un vero e proprio simbolo, proprio come Capo Nord.
E, in fondo, lo è anche per noi.
Riprendiamo la Interstate 40 per un centinaio di chilometri, poco prima ci fermiamo a Williams, altro paese caratteristico della Route 66, famoso per essere l’ultimo paese di intersezione tra la I-40 e la strada storica.
Arriviamo a Flagstaff in perfetto orario, benché sia buio ben prima delle 19 a causa di un cielo un po’ nuvoloso. Al parcheggio del Walmart viene espressamente indicato “no overnight” (nonostante ci siano vari camper), quindi ripieghiamo sul parcheggio di The Home Depot, dove troviamo altri veicoli ricreazionali di dimensioni miste. Parcheggio poco illuminato ma alla fine tranquillo. Alle 6 del mattino inizieranno le operazioni di scarico merci e quindi il costante biii-biii-biii delle manovre dei mezzi pesanti ci sveglieranno, ma ormai abbiamo deciso che le nostre sveglie saranno estremamente presto per guadagnare ore di luce.
La temperatura scende intorno ai 12°. A me già manca il caldo del deserto dell’Arizona, comunque.
Lunedì 16 settembre
- da Fagstaff a Cameron (240 miglia)
La giornata è campale: solita sveglia presto per dirigerci, come prima tappa della giornata, a circa 60 km oltre Flagstaff per una visita al Meteor Crater. Durante il tragitto lungo la solita I-40 attacchiamo il generatore (non potendolo fare di sera per questioni di rumore) per ricaricare un po’ di dispositivi che necessitano corrente e scarichiamo le foto. L’aria è frizzante, qualche nuvoletta poco minacciosa e di nuovo un paesaggio che cambia, con arbusti verdi a bordo strada e rilievi montuosi lontanissimi. Arriviamo sul posto alle 8, pensiamo di essere troppo in anticipo e invece c’è già gente ad attendere l’apertura, di lì a pochi secondi. Questo meteorite ha avuto proprio una bella pensata a cadere qui milioni di anni fa: il cratere che ha lasciato ha permesso lo sviluppo di un business, un mega padiglione con proiezione di video in 4D sulla ricostruzione dell’evento, una guida e una terrazza panoramica per ammirare il cratere. Io mi aspettavo giusto il classico Visitor Centre con le foto della ricostruzione e una terrazzetta per affacciarsi. Non gli darei più di 10,00 $, ma quando me ne sparano 18,00 rifiuto serenamente! Insisto però che i miei vadano, perché ci tengono sicuramente più di me, e hanno diritto pure a ben 2,00 $ di sconto in quanto "vecchietti".
Un’ora dopo siamo già sulla strada del ritorno, ci fermiamo in un campeggio nei pressi del Meteor Crater per scaricare i serbatoi e ricaricare l’acqua. Ci chiedono 10,00 $ per le operazioni, ma tanto va fatto... glieli diamo più che volentieri ormai, così finalmente vediamo questo famigerato sistema di scarico americano all’opera: il serbatoio delle acque nere e quello delle grigie confluiscono in un unico tubo, al quale va attaccato un grosso tubo tipo i corrugati che si collega direttamente al terreno. Prima le nere, poi le grigie, tutto pulito e senza troppi odori. In dieci minuti ricarichiamo anche l’acqua chiara, per una durata totale dell’operazione di 25 minuti. Molto meno che quando facciamo carico/scarico con il nostro camper! Torniamo verso Flagstaff, mettiamo benzina a 2,76 $ a gallone (conversione alla mano, tipo 66 centesimi al litro!) ed imbocchiamo la 180 verso il South Rim del Grand Canyon. La temperatura è notevolmente scesa, il vento è decisamente fresco e lungo il tragitto non ci facciamo mancare nemmeno un bello scroscione d’acqua, che per fortuna lascia in fretta il posto a nuvole poco minacciose. Arriviamo per l’ora di pranzo ed entriamo tranquillamente con la portentosa tessera parchi. Dopo un quarto d’ora di confusione in cui non capiamo bene dove andare, ci avviciniamo ad uno dei tanti campeggi. Mentre chiedo informazioni, i miei ricaricano alquanto furtivamente le tanichette di acqua potabile ad una fontanella. Alla fine parcheggiamo a Market Plaza (l’unico parcheggio adibito a camper, a parte un altro parcheggio in prossimità dell’entrata e i campeggi!). Grazie allo shuttle bus gratuito che copre diversi punti, dopo aver mangiato qualcosina iniziamo il tour da Mather Point...
La breve camminata ci porta su uno dei lookout più belli, dove si diventa minuscoli e le parole scompaiono. Siamo al cospetto di una bellezza che commuove, una bellezza che se ne sta qui, immobile ed imponente davanti a noi, dall’altro lato della ringhiera, da oltre due milioni di anni. Strati e strati di rocce che una volta se ne stavano sotto l’acqua e poi sono emersi, mentre il fiume Colorado ha iniziato il suo percorso di erosione.
Camminiamo lungo il belvedere, pian piano riprendo le parole e mi lancio a scattare foto. Vorremmo arrivare fino alla punta più protesa nel canyon, ma il tempo è poco e vorremmo uscire dal parco per raggiungere la prima località utile prima che faccia buio... e qui il buio sembra arrivare in fretta!
Sono le 17.30 quando usciamo dal parco lungo la East Rim Drive, che scopre ancora qualche punto di questa forza della natura. In particolare, Moran Point (a pochi chilometri dall’uscita est), proprio a cento metri dalla strada principale, ci mostra un’ansa del fiume Colorado. L’ultimo tratto del Grand Canyon corre parallelo alla strada, per lasciare poi il posto ai pendii verdi e a qualche “strappo” tra i prati che mostra ancora le rocce erose. Tra 30 miglia ormai siamo a Cameron, dove ci fermiamo per la notte. Dopo aver visionato un paio di campeggi che hanno il coraggio di chiedere tipo 35,00 $, decidiamo per il parcheggio del Burger King. Il babbo si lancia in una conversazione con un camionista parcheggiato, chiedendo se possiamo restare, e al suo “yes, no problem” ci fermiamo ufficialmente.
I telefoni sono fuori copertura, di internet nemmeno l‘ombra.
Tanto vale arrendersi.
Martedì 17 settembre
- da Cameron a La Verkin (248 miglia)
La nottata è scorsa tranquilla, i nostri cellulari sono senza rete da ieri e qui nelle riserve indiane sembrano, peraltro, non rispondere ai comandi, come se fossero vittime di qualche forza magnetica, ma cerchiamo di non badarci troppo. La meta del giorno prevede l’arrivo a Springdale, porta d’accesso al parco nazionale di Zion, in Utah. Per raggiungerla dobbiamo praticamente effettuare una sorta di anello attorno al Grand Canyon lungo la US-89, ma il paesaggio variegato, le colline rocciose ed i colori sono uno spettacolo per gli occhi, tanto che i primi 200 km scorrono via quasi senza che ce ne accorgiamo.
Non avrei mai immaginato che l’Arizona potesse regalare così tante soddisfazioni. Poco oltre la Junction con la US-89 ci fermiamo nel parcheggio del Navajo Bridge, che ci consente una vista mozzafiato sul fiume Colorado. Costruito nel 1929, ha segnato un’importante tappa nella storia delle costruzioni delle strade in Arizona e ha soppiantato il pericoloso trasporto via fiume.
Riprendiamo poi la marcia, scortati” a destra dalle pareti di roccia rossa del Marble Canyon, mille sfumature di ruggine e rame, fino al rosa e al violaceo. Appena saliamo di quota il paesaggio cambia di nuovo, e dalle rosse pianure desertiche torniamo alla vegetazione sempreverde tipica di questa zona.
Nel frattempo, la necessità di caricare i nostri duemila dispositivi elettronici aguzza l'ingegno italiano e crea un'opera su cui rideremo per settimane (e per mesi quando lo ricorderemo): si tratta di "norma zero", formato dal nostro inverter portatile (talmente portatile che ci accompagna da anni nei nostri viaggi in camper!) che attacchiamo alla presa dell'accendisigari, sul quale attacchiamo tutte le derivazioni disponibili al momento: adattatore universale, tripla spina, cavo usb. Naturalmente, il poveretto in queste condizioni si surriscalda facilmente, e ricorriamo dunque ad un bicchiere di polistirolo fissato con nastro adesivo alla bocchetta del condizionatore, che convoglia l'aria fresca permettendogli di funzionare senza andare in protezione. Non essendo esattamente rispettoso delle norme di sicurezza in materia di elettricità, "norma zero" ci è sembrato subito un nome adatto!
Arriviamo al LeFevre Overlook (nel Kaibab National Park), dal quale si ammira tutto il plateau del Colorado dai suoi mille riflessi, dal Grand Staircase Escalante al Bryce Canyon. Uno spettacolo indescrivibile.
Arriviamo arrancando a Colorado City, paese di confine tra Arizona e Utah, e ci fermiamo per il pranzo. Nel frattempo il cellulare aggancia ufficialmente il fuso orario locale, così anziché 9 ore di differenza con l’Italia al momento ne abbiamo soltanto 8.
Ma siamo sicuri, poi, che in Arizona erano ancora in vigore il fuso orario della California?
Attraversiamo Hurricane e La Verkin e lungo la strada nei pressi dell’agglomerato urbano di Virgin la nostra attenzione viene catturata da un curioso “villaggio” ricostruito con casette che sembrano di marzapane, dalla pasticceria alla banca, dall’hotel alla prigione. Casette piccole, circondate da cactus e vegetazione tipicamente desertica, con il plateau del Colorado giusto alle spalle. Sempre con lo sfondo stupendo delle Montagne Rocciose in tutta la loro magnificenza, arriviamo a Springdale alle 15.30... anzi, alle 16.30 con il nuovo orario! Diamo un’occhiata ai campeggi ma sono tutti al completo da mesi, cosa che non sospettavamo minimamente.
Il simpatico ranger al toll di entrata al parco ci avvisa che, se intendiamo attraversare Zion per andare a Bryce Canyon, dovremo pagare 15,00 $ per un pass che ci permetterà di usare un tunnel molto stretto. L’alternativa sono 250 miglia per aggirare quella strada ed il tunnel, quindi anche no, tanto avevamo gà stabilito l’itinerario. Decidiamo però, dato che i campeggi sono pieni, di riscendere verso La Verkin (a 20 miglia a sud) e trovare un posto per dormire. Al benzinaio dove facciamo rifornimento ci suggeriscono il La Verkin Outlook, nient’altro che una strada (sterrata ma civile) che porta a un belvedere. Ci sono diversi spiazzaletti su sterrato, lungo i tre km che portano alla fine, dove spesso i camper si parcheggiano. Infatti, al nostro arrivo ci sono già un paio di camper e un paio di roulottes lunghissime, che da noi hanno solo quelli del circo e qui invece la gente ci va tranquillamente a spasso.
La golden hour rende il paesaggio superbo, abbiamo praticamente tutta la catena rocciosa davanti, dalle Vermillion Rocks a Zion. Il babbo parcheggia esausto, io faccio ancora due passi per qualche scatto estemporaneo. Non paga, dopo cena non mi faccio nemmeno mancare le foto alla stellata nel buio, finalmente (ho portato il cavalletto apposta!).
Nanna presto (ma più tardi delle altre sere!) e domani parchi!
- da La Verkin a Dixie National Forest (116 miglia)
Stamattina la sveglia suona prima dell’alba, e dopo il caffè l’alba ci accompagna fino a Zion, dove arriviamo prima delle 8... e c’è già un sacco di gente! Arriviamo a pelo per prendere uno degli ultimi parcheggi per camper rimasti liberi. Fa freddissimo, tira un bel vento allegro e noi usciamo con le felpe! Lo shuttle bus gratuito, che prendiamo dal Visitor Centre, raggiunge tutti i punti da cui partono i sentieri escursionistici, ma anche per i non avvezzi al trekking il percorso in bus risulta piuttosto panoramico.
Ci sarebbero un paio di trails interessanti (anche se lunghi!), ma sono chiusi per pericolo frane, quindi io mi accontento del Lower Pool Trail (breve e poco impegnativo) e di un’occhiata al Temple of Sinawawa, alla fine del percorso in bus, da cui si accede al lungofiume. L’aria qui in fondo alla gola è così fresca che per un attimo ci si scorda di essere in mezzo al deserto. Poco oltre le 11 ritrovo i miei alla base e ripartiamo in direzione Bryce Canyon. La vera sorpresa è adesso, nei tornanti che si arrampicano verso il tunnel a senso unico alternato (quello per il quale abbiamo pagato il pass ieri pomeriggio) e anche oltre: la UT-9 da Zion a Mt. Carmel si snoda tra le montagne del parco nazionale in un paesaggio senza eguali, dove i colori dominanti sono le sfumature dal bianco al rosso, sempre più in alto. La roccia appare levigata, rigata, la scarsa vegetazione di sempreverdi permette delle foto spettacolari ed il cielo azzurro fa da cornice.
Il segnale del cellulare è inesistente, ma questa strada toglie il fiato... e a noi basta così. Dopo un centinaio di chilometri, arriviamo nei pressi della Dixie National Forest e ci parcheggiamo al Red Canyon Campground. Due simpatici rangers con un caddy mi aiutano a riempire il form per il posteggio: 18,00 $ non importa quante persone ci sono nel camper, possiamo lasciare il talloncino ed uscire dal campeggio (affinché gli altri vedano che il parking lot è occupato), e in più abbiamo il carico e scarico (costo di 5,00 $ per i non ospiti del campeggio). Siamo a 20 miglia dal Bryce Canyon, ma in posizione tattica. Abbiamo una bella piazzola sterrata ma ampia, anche un grosso tavolino di legno a fianco al camper per mangiare all’aperto, con vista Red Canyon. Dopo il caffè ripartiamo finalmente verso il Bryce Canyon, che raggiungiamo in una ventina di minuti: parcheggiamo senza intoppi al Visitor Center e prendiamo subito la solita navettina gratuita. I punti panoramici di questo canyon formato dall’erosione di acqua e venti circa 30 milioni di anni fa sono pochi e ben serviti dalle fermate, ma il massimo lo regalano i 35 chilometri di percorsi in fondo alla gola, dalla quale si vedono i pinnacoli alti come cattedrali: un paradiso per gli escursionisti, come del resto Zion.
Ci affacciamo dunque dal Bryce Point e dal suo gemello poco distante, poi lascio i miei e mi incammino nell’Under the Rim trail, ovvero la strada che scende giù nei pinnacoli.
Una camminata affascinante sempre più giù, dove incontro anche il grazioso scoiattolo di terra dorato, una delle due specie di scoiattoli presenti nel Bryce Canyon. È piccolo e corre come una scheggia impazzita, tanto che fargli qualche foto è difficilissimo! È ghiotto di nocciole e corteccia di alberi... e d’inverno va in letargo. Che bella vita. Risalgo dopo un paio d’ore con la lingua a terra, e le scarpe ed i polpacci pieni di terriccio rosso. Riprendo la navetta e torno al camper, dove i miei mi aspettano già per rientrare al campeggio. Dopo una doccia rapida nell'abitacolo e la cena, un po’ di foto alla Via Lattea, che immersi in questo buio si vede ancora meglio che la notte scorsa. Spettacolo unico. Mentre siamo immersi nel solito scarico serale delle foto sul pc, uno strano cicalino inizia a disturbare: l’allarme del monossido di carbonio. Peccato che non ci sia niente di pericoloso o in combustione, quindi, dopo esserci scervellati ed aver tentato tutte le possibili soluzioni proposte dal manuale, decidiamo di metterci a dormire comunque. Tenendo, però, le finestre aperte.
Che non si sa mai.
Giovedì 19 settembre
- da Dixie National Forest a Glen Canyon (200 miglia)
Oggi ci svegliamo con un pelo di calma in più, dopo aver passato la notte con il cicalino dell’allarme che, alla fine, abbiamo smesso di sentire. Il freddo comunque è entrato nelle ossa, tanto. Talmente tanto che per le operazioni di carico e scarico collaboro solo parzialmente, poiché, nonostante i duecento strati di vestiti, sento freddo. Prima delle 9 siamo comunque già operativi ed in cammino, compresa una breve sosta al Red Canyon, poco distante dal campeggio.
Una breve passeggiatina nel sentiero in mezzo ai pini e agli “hodoos” rosso fuoco, illuminati dal primo sole del mattino che viene su dalla Dixie National Forest, e poi riprendiamo la marcia verso Kanab e di seguito Page. La US-89 è davvero una delle strade più panoramiche: attraversiamo il bordo sud del Grand Staircase-Escalante National Park, con le sue rocce stratificate simili al Marble Canyon, e poco più avanti ecco scorgere in lontananza il Lake Powell. Nel frattempo, il fastidioso cicalino dell’allarme monossido di carbonio ha smesso finalmente di cicalare (dopo dodici ore!), risparmiandoci così l’incombenza, almeno per stavolta, di contattare l’assistenza. Entriamo da uno dei toll del Glen Canyon esibendo fieramente la nostra tessera parchi, parcheggiamo qualche minuto sull’overlook della Lone Rock.
L’acqua di questo lago artificiale, costruito con lo sbarramento del Colorado, ha un’acqua azzurrissima, viene quasi voglia di farci un bagno. Cosa peraltro possibile, dato che in alcune zone ci sono spiaggette. Ci fermiamo per pranzo in uno dei parcheggi vista lago, recuperando nel frattempo un’ora per via del fuso orario... praticamente iniziamo a mangiare alle 12.45 e finiamo alle 12.20!
Ci dirigiamo verso Page, oltrepassiamo la diga di Glen (che vedremo con più calma domani, magari) ed arriviamo allo sterrato parcheggio dell’Antelope Canyon (upper, per l’esattezza). Scendo a prendere informazioni sui tours dalle guide Navajo, ci sono due gazebo con tanta gente in fila, fa caldo e tira un vento terribile che mi schiaffeggia con i granelli di sabbia. Senza rendermene conto, in pochi minuti sono in lista nel tour delle 14.45. I miei decidono di non seguirmi, quindi vado da sola... anche perché 60,00 $ per la visita sono decisamente molti. Aspetto oltre un’ora, in mezzo a mandrie di asiatici, bardata da deserto con cappello, occhiali da sole e sciarpa fin sopra il naso, e alla fine arriva il mio turno. Non sono ammesse borse, nemmeno tasche piccolissime o marsupi: consentite solo reflex, smartphone e bottiglia d’acqua. La nostra guida ci fa salire a bordo di un 4x4, siamo una decina di persone per ciascuna guida turistica, e sgommiamo nel deserto per qualche minuto, mangiando sabbia, fino all’ingresso nord di questa ennesima meraviglia della natura, creata da sabbia e silicio, strato su strato e compattati insieme dall’acqua e dal vento.
E’ proprio come nelle foto che ho sempre visto: le forme sinuose delle pareti stratificate lasciano filtrare la luce e noi giochiamo ad essere creativi con le nostre fotocamere, con l’aiuto della guida che ci indica le angolazioni migliori per scattare foto uniche.
Anche a quest’ora, insomma, il sole regala ancora grandi emozioni quando si infila tra le pareti del canyon. In alcuni punti però è davvero buio, ecco perché consigliano sempre i tour nelle ore centrali della giornata. La visita dura circa un’ora, poi ci riportano al parcheggio dopo aver scavallato, tutti a piedi ed in fila indiana, una collinetta di rocce e sabbia. Lasciamo una mancia alla nostra guida e ce ne andiamo (il mio servizio rv è già arrivato a prendermi!). Pochi chilometri oltre, altra tappa importante nel tour dei parchi: l’Horseshoe bend, il ferro di cavallo, ovvero l’ansa più famosa del fiume Colorado. L’unica cosa da pagare è il parcheggio (10,00 $ per i camper, no overnight ovviamente!), e circa un chilometro di sentiero sabbioso a piedi. La vista è impagabile, anche se abbiamo il sole dritto in faccia, dato che tramonta proprio dietro l’ansa. C’è tanta gente, stecche selfie, asiatici, gruppi di ragazzi che si arrampicano sulle rocce per la foto più artistica. Un piccolo belvedere con ringhiera dona una visuale piuttosto buona, ma bisogna fare a cazzotti. E bisogna fare a cazzotti pure con il sole, che finché non si abbassa su una nuvola sull’orizzonte risulta fastidiosissimo per le foto. La vista, però, rimane superba.
Promemoria: consigliare l’Horseshoe bend con la luce del mattino!
Dopo essere entrati ed usciti dai toll del Glen Canyon svariate volte, finalmente rientriamo per l’ultima volta dalla stessa strada fatta stamattina, e pagando 14,00 $ abbiamo la possibilità di campeggiare in ogni parcheggio della zona, anche in spiaggia (cosa che ci guardiamo bene dal fare). Abbiamo un’ora in più a cusa del cambio di Stato, è buio pesto e in un attimo sono le 20. A cena, la “pisellata” mette d’accordo tutti, e nel frattempo conversiamo degli indiani d’America e di quello che hanno dovuto passare per generazioni con l’avvento dei coloni bianchi. Iniziamo ad elencare le tribù indiane conosciute: Navajo, Cheyenne, Cherokee e Sioux. Il babbo snocciola pure Seminole, Algonchini e Mescaleros.
E con queste perle, ce ne andiamo a dormire.
Venerdì 20 settembre
- da Glen Canyon a Cortez (292 miglia)
Stamattina l’amico cicalino è tornato a farci compagnia, ma ormai sappiamo che è sfasciato. Se insiste, contatteremo l’assistenza.
Noi ci svegliamo con il lago di fronte e, una volta colazionati, sono già le 8 nello Utah, ma attraversando il confine di stato pochi chilometri oltre il toll rientriamo in Arizona e guadagniamo un’ora. Interessante questa cosa.
Percorriamo la Shore Drive fino al Navajo Mountain Viewpoint, da dove si ha una bella vista sui rami del Lake Powell. Utili anche i pannelli esplicativi della centrale a carbone navajo, poco lontana, che grazie all’acqua della diga produce energia elettrica. A tal proposito, finalmente ci fermiamo con calma sulla Glen Canyon Dam, ad ammirare la profondità delle pareti del canyon sul fondo del quale il Colorado continua a scorrere pacifico. Ci appoggiamo nel parcheggio del Visitor Center e camminiamo lungo il ponte a lato dell’immensa diga, costruita negli anni Cinquanta ed alta 220 metri. Risalendo poi a bordo del nostro trabiccolo, scopriamo che il cicalino si è di nuovo tacitato (quindi abbiamo fatto bene ad ignorarlo). Una deviazione di poche centinaia di metri ci porta al Glen Canyon Dam overlook, un punto panoramico imperdibile, da cui si vedono il ponte e la diga e, a sinistra, le anse del fiume, il tutto circondato da strati di magnifica roccia rossa. Esibiamo poi di nuovo felicemente la nostra tessera parchi al toll dell’Antelope Point (altri 30,00 $ risparmiati!) per un’altra piccola sosta con vista Antelope Island (tra l’altro è una zona balneabile con spiaggetta, per chi fosse interessato), e adesso siamo pronti a ripartire.
Raggiungiamo l’intersezione con la US 160 subito dopo il pranzo e il rifornimento benzina, e via verso l’iconica Monument Valley. Attraversare la Mesa Nera ed il Navajo National Monument lungo il tragitto è stato già abbastanza scenografico, come tutte le strade percorse finora, ma trovarsi di fronte i meravigliosi monoliti della Kayenta Valley e di seguito della vallata più famosa degli Stati Uniti è l’ennesimo sogno che si avvera. "Ma allora esistono!" è la prima cosa che penso, quando li vedo stagliarsi all'orizzonte, in fondo ad una striscia nera di asfalto bollente. Ci fermiamo poi lungo la strada in alcuni punti panoramici, riempiendo gli occhi di queste incredibili meraviglie della natura: le parole, ancora una volta, si arrendono in fondo alla gola e lasciano il posto allo stupore.
Arriviamo al toll navajo per entrare al parco: l'ingresso sarebbe 20,00 $ a veicolo (fino a 4 persone) per il semplice parcheggio del camper, dato che poi la strada che fa l’anello intorno alle rocce è impraticabile con mezzi grossi e dovremmo spendere ulteriori quattrini per il tour guidato dai navajo con la jeep, eventuali altri soldi per il campeggio... dunque rinunciamo e tiriamo dritto, facendo una capatina al Mexican Hat, piccola formazione rocciosa che si intravede già lungo la strada panoramica poco più avanti. La 163, circondata da rocce rosse e terra color ruggine, che d’improvviso spariscono e lasciano il posto ai prati verdi per riprendere poi un profilo roccioso grigiastro pennellato di rosa. Come un trasformista, questa terra mette in scena il suo spettacolo migliore con continui cambi di abito: la vera magia spesso non sono i luoghi, ma guidarci attraverso.
Siccome il sole è ancora alto, e a forza di fare avanti e indietro con l’ora non abbiamo idea di che ora sia davvero, proseguiamo lungo la strada e ci fermiamo per due foto al cartello dello sghignazzante paesino di Bluff, quattro case e uno sceriffo. Malgrado il nome e la dimensione, questo paesino pare sia stato fondato nel 650 d.C, quindi è anche abbastanza storico, e non solo: è circondato da una corona rocciosa molto suggestiva, levigata e chiara... sembra un marshmallow. E di nuovo, il paesaggio continua a cambiare ed attraversiamo il West sperduto, con i serbatoi dell’acqua piovana, le macchine arrugginite e le recinzioni artigianali di legno, con qualche casetta di tanto in tanto.
Il sole ci accompagna fino a Cortez, dove ci fermiamo nel parcheggio di Walmart, per la gioia della vergara, che dopo cena va a fare spesa sperando di trovare qualcosa di decente da mangiare per i prossimi giorni.
Sabato 21 settembre
- da Cortez a Durango (115 miglia)
La giornata inizia con calma, l'aria del mattino è abbastanza fredda ed iniziamo a prevedere la possibilità di accendere un po' la stufetta la sera, pertanto necessitiamo di un distributore che ricarichi il propano, visto che viene utilizzato anche per il frigo e non vorremmo trovarci senza. Finora abbiamo incontrato solo distributori che ricaricano bombole, mentre per il camper serve qualcosa di più specifico perché non abbiamo una bombola da smontare e mettere a terra. Dopo aver chiesto a varie gas stations in paese, approdiamo a Country Gas grazie al suggerimento di una barista, e finalmente riusciamo nell'impresa! Un efficientissimo tizio, appena ci vede arrivare, prima ancora che chiediamo qualsiasi cosa ci fa: "gira il camper, che l'attacco sta sull'altro lato". Il propano costa 1,78 $ a gallone, in 10 secondi ricarica la metà mancante e ci suggerisce di guardare l'indicatore di propano all'interno dello sportello perché è sempre più preciso. Ci fermiamo per qualche videochiamata mattutina, poi finalmente ci dirigiamo al parco di Mesa Verde, dove arriviamo con estrema calma alle 11.
Mesa Verde, dichiarato Patrimonio dell'Umanità nel 1976 è la testimonianza dei vecchi insediamenti degli indiani d'America che vivevano tra i canyons del Colorado già nel 500 d.C e vi rimasero per diversi secoli. I loro vecchi villaggi ormai disabitati sono chiamati "cliff dwellings": sono organizzati in tante abitazioni a pozzo (pithouses) prima costruite in legno e fango e poi anche in pietra, e hanno la particolarità di essere rimasti pressoché intatti poiché costruiti sotto grandi scogliere affacciate nel canyon. Ci sono diversi tour guidati con i rangers (al costo di 3,00 $ ciascuna) per la visita all'interno dei villaggi, ma sono abbastanza impegnative e prevedono scale a pioli, sentieri ripidi e tunnel strettissimi, quindi i miei sono costretti a rinunciare. E devo rinunciare anche io, dato che i tours per oggi sono sold out! Ci accontentiamo però di un bel tour panoramico (fattibile anche in camper) lungo la strada che arriva a coprire i principali overlook del canyon. Ci prendiamo il nostro tempo per fermarci ad ogni belvedere per ammirare queste insolite costruzioni visibili dall'alto, e verso metà pomeriggio siamo sulla strada per Durango. Arriviamo nei pressi della cittadina prima del tramonto, ci fermiamo nel parcheggio adiacente alla Historic Silverton Railway ma nessuno ci sa dire se possiamo restare per la notte, quindi ci spostiamo al vicino Walmart.
Nel frattempo i vecchi sono assai sbriciolati: il babbo con la tosse e la vergara indistruttibile con un principio di febbre e raffreddore.
Se mi salvo in 10 metri quadrati di spazio, posso sopravvivere anche alle bombe al napalm.
Domenica 22 settembre
- da Durango a Grand Junction (186 miglia)
Stamattina mi sveglio prestissimo causa freddo: alle 6 del mattino qui a Durango (circa 2500 metri di quota tra le Montagne Rocciose del Colorado) ci sono 2°C.
E partono strati di vestiti per rimettermi sotto al piumone sperando di riprendere sonno. Temo di essere stata troppo ottimista con l'abbigliamento messo in valigia: oggi si sfoderano pantaloni lunghi e giacca. Torniamo in centro per vedere la partenza della locomotiva a vapore diretta a Silverton, che passa diretta sui binari in mezzo alla cittadina. Il parcheggio adiacente alla stazione costa 10,00 $, ma la gentile ragazza al booth ci fa parcheggiare gratuitamente perché, spieghiamo, vogliamo solo veder partire il treno, quindi staremo fuori un'oretta al massimo. La locomotiva a vapore sbuffa già sul binario, tira fuori fumo bianco e poi nero, e fa il classico "ciuf ciuf" del treno. Meravigliosa! La stazione non è da meno: tutta in legno, è semplicemente la vecchia stazione ferroviaria di fine Ottocento restaurata, con tanto di sala d'attesa e stufe a legna dell'epoca. La biglietteria ha una connotazione storica, e anche il gift shop che un tempo doveva essere un'altra ala della sala d'attesa. Estremamente caratteristica. Attualmente, la linea Durango-Silverton è ormai solamente turistica, peccato che il biglietto del treno che in un paio d'ore raggiunge il capolinea costi 85,00 $. Ecco perché ci accontentiamo di vederne un paio partire, sbuffando fumo denso che si alza rapido sullo sfondo delle montagne.
Alle 10 siamo già in cammino verso il prossimo step, a circa 300 km di distanza, porta d'accesso alla Rim Rock Drive (considerata una delle strade più panoramiche e belle degli Stati Uniti). Saliamo lungo la US 550, la cosiddetta Million Dollar Highway, che pure è mozzafiato: ci arrampichiamo lungo i fianchi delle montagne fino a Molas Pass, a circa 3500 metri di quota, riscendiamo fino a Silverton, capolinea del treno a vapore partito da Durango, e poi di nuovo risaliamo, circondati da boschi di conifere e cime appuntite, attraversando il Red Mountain District, vecchio quartiere minerario della zona.
Anche questo paesaggio è indubbiamente meraviglioso, ma soprattutto è meravigliosa l'evoluzione del panorama fuori dal finestrino in questi 1500 chilometri finora percorsi. Ci fermiamo di nuovo nei pressi di Red Mountain Creek, dove il piccolo Crystal Lake, a bordo strada, riflette già i primi colori dell'autunno. Scendiamo lungo tre tornanti, e ancora la strada riserva sorprese, i fianchi spaccati delle montagne, i ruscelli e le rocce che sembrano volerci piombare addosso. Ouray, il primo paese a fondo valle, ha tutta l'aria di una bomboniera di legno, un paesino che ricorda quelli incastonati nelle nostre Alpi, infatti tutto qui sembra la Svizzera. Ci fermiamo per il pranzo poco oltre il nucleo abitato, in una deviazione della strada principale sul greto del fiume, e poi riprendiamo la marcia. Nel frattempo giochiamo al gioco degli Stati americani, ovvero a ricordarci più stati americani possibili: arriviamo a 36, punteggio abbastanza scarso, ma migliorabile! A Delta facciamo rifornimento di benzina e poi troviamo una dump station gratuita in prossimità di Palmer Street, dove facciamo operazione di carico e scarico e siamo a posto per altri 4 giorni comodi. La giornata finisce a Grand Junction intorno alle 18, in prossimità del Colorado National Monument. Sarebbe troppo presto per fermarci, ma siccome è troppo tardi per imboccare la Rim Rock Drive (strada panoramica di 23 miglia attorno al Parco Nazionale) optiamo per farla domani, come prima tappa verso l'Arches National Park. Ovviamente, anche stasera ci ospita il Walmart cittadino!
Lunedì 23 settembre
- da Grand Junction a Moab (180 miglia)
Stamattina lasciamo il rumoroso parcheggio di Walmart alle 8.30, con una temperatura esterna di 12°C (abbastanza civile!) e ci dirigiamo finalmente verso la Rim Rock Drive, mentre un cielo velato ci accompagna. A poche miglia dal centro abitato, dopo aver attraversato un delizioso quartiere residenziale con le classiche casette basse che si vedono nei film, ecco di nuovo le colline. Al toll del Colorado National Monument potremmo passare con la tessera parchi ma in realtà non c'è nessun omino, quindi imbocchiamo indisturbati quella che è considerata una delle strade più belle degli Stati Uniti, attraverso un canyon scavato nel corso di 40 milioni di anni.
Innegabilmente affascinante, la strada si inerpica lungo i fianchi delle rocce dalle mille sfumature rosse, tra alberelli di ginepro e overlooks mozzafiato: inutile dire che ogni angolo è ottimo per fare foto!
Ci impieghiamo due ore per percorrere una quarantina di chilometri della strada che ci riporta a fondo valle, a Fruita, da dove riprendiamo la I-70 verso lo Utah e l'Arches National Park, tappa ultima della giornata. In prossimità di Cisco (dopo aver riattraversato il confine tra Colorado e Utah) usciamo dalla strada principale e deviamo a sinistra sulla 128, che sembrerebbe, guardando la cartina, più panoramica. E lo è: la strada corre sinuosa e parallela al fiume Colorado, circondato dal fondo del canyon che lui stesso ha scavato.
Le rocce attorno sono rosse e come nella Monument Valley, con ampi spazi verdi ed arbusti aridi: uno spettacolo dall'inizio alla fine, tanto che ci fermiamo a fare pranzo lungo il percorso, vista fiume... con spaghetti al tonno!
Varchiamo il toll dell'Arches National Park solo alle 15.30, ma restiamo oltre 3 ore: ancora una volta, l'erosione del vento e dell'acqua qui hanno creato miracoli nell'arco di 60 milioni di anni. La strada che porta agli overlook e ai sentieri esplorativi è lunga circa 30 chilometri in tutto, e ne vale decisamente la pena: è percorribile tutta anche con mezzi importanti (tipo i camper che girano da queste parti, veri e propri autobus che trainano, spesso, anche una jeep!), e ci sono buoni spazi parcheggiare a bordo strada ed affacciarsi a vedere i punti più panoramici. A parte i pinnacoli in equilibrio su fondi franati e le rocce levigate dalla sabbia, il vero miracolo qui sono, appunto, gli archi: non è difficile capire come l'acqua abbia eroso la roccia dall'alto, fino a formare buchi levigati poi dagli agenti atmosferici.
E loro se ne stanno lì imponenti e sfacciatamente belli, a dominare il panorama da millenni, destinati a tornare, un giorno, alla terra da cui sono stati creati.
Gli itinerari tra gli archi ed i pinnacoli sono infiniti, ed alcuni tra i più famosi sono accessibili anche ai meno avvezzi al trekking: per raggiungere le Windows, ad esempio, c'è un comodo percorso di gradini in mattoni, mentre il Double Arch è praticamente a bordo strada, in fondo ad un percorso sterrato di trecento metri. Il Sand Arch è più impegnativo da raggiungere solo perché il percorso, benché molto breve, è completamente sabbioso.
Scendiamo al Visitor Centre che sono già le 19, ricarichiamo le taniche di acqua potabile alle fontanelle designate (ogni parco nazionale qui in America ne ha, generalmente in prossimità dell'ingresso, messe a disposizione proprio per riempire eventuali bottiglie in vista del trekking all'interno) e ci spostiamo in un piccolo parcheggio poco distante dall'entrata, a bordo strada, davanti al cartello della cittadina di Moab. Ci sono altri camper dall'aria sgangherata, ma il posto è tranquillo.
Martedì 24 settembre
- da Moab a Provo (201 miglia)
La mattinata fresca ci accompagna lungo la 191 attraverso gli altipiani color sabbia dello Utah, ancora una volta terre sconfinate che riempiono gli occhi. La tappa di oggi è Helper, a circa 200 chilometri, dove c'è un museo ferroviario per il babbo. Lungo la strada ci fermiamo a Price per comprare un paio di cose commestibili da Walmart. Tra l'altro, bisogna ammettere che per un italiano la spesa da Walmart in America è quasi un'esperienza: è un viaggio a metà tra l'orrore e lo stupore in un supermercato dove si può trovare qualsiasi genere di schifezza. Dagli animaletti di cracker con la glassa rosa alle taniche di succhi di frutta visibilmente pieni di coloranti. Centinaia di tipi di cereali diversi in buste da un chilo, enormi salsiccioni di ground beef (carne macinata) per qualsiasi genere di preparazione, banchi frigo interi di salsicce molli e svizzere per gli hamburger, per non parlare dei condimenti, delle salse per le patatine. Questa gente mangia veramente male, e si vede. Frutta e verdura costano un occhio, neanche da noi fuori stagione hanno questi prezzi. Va de sé che, se vuoi mangiare un minimo civilmente, devi essere disposto a spendere. E ci tocca farlo, altrimenti ci lasciamo fagocitare dallo schifo in vendita. Per contro, la cortesia del personale è insuperabile, commessi e cassieri salutano, sempre estremamente sorridenti. E una cosa che adoro, tutti hanno l'abitudine di aggiungere al saluto un "come stai oggi?", è qualcosa che dovremmo imparare a fare anche noi, fa sentire importanti. A proposito di Walmart, dobbiamo comprare l'olio del motore del camper: tra i suggerimenti del noleggio c'era di controllare l'olio ad ogni rifornimento, cosa che non abbiamo fatto perché ci sembrava eccessivo. Fatto sta che ci siamo ritrovati con l'olio al minimo, quindi, contattando l'assistenza per sapere come muoverci, ci hanno detto che potevamo provvedere autonomamente conservando lo scontrino per avere il rimborso una volta reso il camper. Ne approfittiamo anche per mettere poi benzina al distributore Walmart, al prezzo più basso mai incontrato: 2,65 $ a gallone! Lungo la strada, poco più avanti, mossi da una curiosità ormai insostenibile, ci fermiamo presso un RV rental/sale e chiediamo informazioni sui prezzi di questi bestioni giganti che vediamo sempre in giro. Keith, simpatico salesman della concessionaria, ci dedica ampio spazio pur sapendo che le nostre domande sono solo a titolo informativo. Quando chiedo come la gente possa permettersi camper grossi come autobus (che ci dice costare intorno a mezzo milione di dollari) ci spiega che qui la gente, appena arrivata la pensione, vende casa e si compra un camper del genere per viverci 365 giorni l'anno. Ovviamente si può guidare tranquillamente con la patente normale, perché qui negli States la diversificazione delle patenti non va in base al peso del veicolo. Follia pura. Parliamo delle differenze tra questo continente e quello da cui proveniamo, di quanto le leggi e soprattutto le strade siano diverse, di quanto la benzina qui costi poco, e ne approfittiamo per fare un tour a bordo di alcuni camper, tra cui quello gigante.
All'ora di pranzo siamo a Helper, cittadina all'apparenza assai dismessa, circondata dalle colline aride dello Utah, ma che di fatto è un historic district, una sorta di città "vintage", in cui Main Street, la strada che la attraversa, è costellata di edifici di inizio secolo rimasti immutati negli anni. Sulle facciate ci sono dipinte le pubblicità della CocaCola e delle camere di hotel a 50 centesimi, segno di un tempo che ormai non esiste più ma che qui sembra essere ibernato. Un giretto al museo della ferrovia e delle miniere (questa zona è stata un grosso nucleo minerario negli anni Quaranta) e poi ripartiamo, non prima di aver usufruito di una dump station gratuita a cento metri dal parcheggio della Western and Minery Railroad Museum. La statale 6 ha il sapore delle montagna in autunno (non dimentichiamoci che siamo intorno ai duemila metri di altitudine comodi), corre parallela al Price River che scorre pacifico nel suo piccolo letto e alla ferrovia, circondata da colline dai toni caldi di sabbia e terra. Sembra di essere dentro un plastico, ancora una volta i paesaggi dell'ovest americano non deludono. Ci fermiamo a Provo intorno alle 18, nel campeggio Utah Lake State Park (non a caso, siamo al bordo dello Utah Lake!), 30,00 $ con docce, full hook-ups (come loro chiamano l'attacco per la corrente e l'acqua) e piazzole con tavolini per mangiare fuori. Peccato che la sera sia freddo e ci siano zanzare e moscerini pronti a banchettare, quindi ceniamo in camper!
Mercoledì 25 settembre
- da Provo a Syracuse (112 miglia)
Anche stamattina, dopo una nottata abbastanza fresca, ci svegliamo con calma. Nessuna operazione di carico/scarico poiché siamo a posto da ieri, scacciamo le zanzarine che ancora svolazzano dal crepuscolo e prima delle 9 siamo fuori dal campeggio. Ci fermiamo pochi minuti al jetty dello Utah Lake, subito fuori dall'ingresso, per alcune foto: il sole alle spalle dona la luce ideale, l'acqua immobile del lago riflette il cielo e gli alberi esattamente come sono, proprio come uno specchio.
Ci attardiamo almeno mezz'ora a fotografare un intero periodo storico in cinquecento metri quadrati, non ce ne andremmo mai, ma Salt Lake City ci chiama. Arriviamo in pieno centro poco dopo le 11 e, dopo un'estenuante ricerca, troviamo un simpatico omino al box d'ingresso di un ampio parcheggio sulla 300 West (o East... o North? Non saprei... io mi perdo in un isolato!) che ci permette di parcheggiare ad una tariffa scontata (anziché 10,00 $ all day, solo 5,00, ovvero il prezzo per i convenzionati). Ci chiede se siamo della zona, gli dico solo che il camper lo abbiamo noleggiato in California e noi siamo europei, anzi per l'esattezza italiani. E' emozionatissimo di conoscere italiani, non ce ne sono molti nella zona, dice.
Qui negli USA ti danno un sacco di soddisfazioni se sbandieri che la tua nazione di origine è l'Italia.
Salt Lake City è nota per essere la città della più grande comunità mormona degli Stati Uniti. I primi insediamenti permanenti in questa valle arrivarono infatti con quei gruppi di che viaggiarono oltre i confini degli Stati Uniti alla ricerca di una zona isolata per praticare la loro religione lontano dalle ostilità subite negli altri territori. All'arrivo in questa zona, il 24 luglio 1847, il presidente della Chiesa, Brigham Young affermò "questo è il posto" secondo una sua visione. Fu quello il giorno in cui la città venne fondata. Non sorprende, dunque, che l'attrazione principale della città sia il Temple Building, inserito nella piazza omonima (Temple Square), che rappresenta il "quartier generale" della chiesa mormona nel mondo. Molti sono gli edifici nella piazza, tra cui il Tabernacle, ovvero la sala concerti, l'Assembly Hall, e alcuni edifici dedicati ai maggiori esponenti mormoni. Tranne il tempio, gli altri sono tutti aperti al pubblico, e numerosi volontari gentilissimi (provenienti da ogni parte del mondo) offrono tour gratuiti per i curiosi. Ci perdiamo un'ora tra le aiuole e gli edifici in granito, curatissimi ed ordinati, poi ci dirigiamo verso il palazzo del governo che ricalca l'originale US Capitol di Washington DC.
Si tratta di un parco statale che non rientra nel circuito dei parchi nazionali, l'entrata costa 10,00 $ ma la simpatica ranger al toll, data anche l'ora e la nostra volontà di fermarci giusto un'oretta per fare un tour rapido in camper, ci fa lo sconto "residenti Utah", quindi paghiamo 5,00 $ ed attraversiamo il braccio di lago per raggiungere l'Antelope Island. Cordialissimi da queste parti.
Siamo insomma sul Grande Lago Salato che dà il nome alla città, e nonostante i suoi 120 km di larghezza è quel che resta di un vasto bacino preistorico in gran parte prosciugato: tuttora, il Grande Lago Salato è soggetto a variazioni stagionali. Le sue acque non raggiungono i 5 metri di profondità, e a causa della sua elevata salinità, peraltro, poche specie riescono a sopravvivere. Attraversiamo la strada che passa sull'acqua, dall'odore nauseabondo ma meravigliosa a contatto con le montagne, in grado di creare gli stessi riflessi dello Utah Lake stamattina. Percorriamo i pochi chilometri dalla palude al lago, per arrivare a toccare ti nuovo terra. Sull'isolotto, con un territorio collinare e pianeggiante, vivono indisturbate alcune centinaia di bisonti, infatti riusciamo ad avvistarne alcuni senza problemi, sia sulla spiaggia che nei prati, intenti a brucare pacifici. Ci tratteniamo fino al tramonto, per vedere il sole sparire nell'acqua, poi torniamo indietro al Walmart cittadino, dove ovviamente ci fermiamo per la notte.
Giovedì 26 settembre
- da Syracuse ad Alpine (225 miglia)
Oggi tappa perlopiù di trasferimento: dopo un paio di videochiamate alla nostra gente, anche stamattina partiamo abbastanza presto con direzione Ogden (a una ventina di chilometri) per un museo ferroviario per il babbo, peccato che non apra prima delle 10. Io e la vergara ci dissociamo e ci dedichiamo ad altre occupazioni con una connessione internet a sbafo nel parcheggio della stazione, aspettando il ritorno del driver.
Riprendiamo poi la marcia verso le 11.30, la solita 89 regala sempre paesaggi stupendi e, mentre sale, scopre una macchia variopinta: alberi rossi ed arancioni colorano i pendii delle colline, e di tanto in tanto appare qualche paesello. Costeggiamo il Logan River, dove riusciamo a prenderci anche il tempo di qualche foto e ci fermiamo nei pressi di Rick’s Springs, una grottina da cui parte un minuscolo affluente del fiume (la sua acqua arriva direttamente da una frattura della roccia). Dopo pranzo, ancora la strada movimentata dalle colline rivestite d'autunno: saliamo in quota e scendiamo a fondo valle, oltrepassando la Cache National Forest e scavallando una ventina di miglia in Idaho lungo il lago che dà il nome alla cittadina di Bear Lake.
La foto sotto ai cartelli di Stato è sempre d'obbligo, e per fortuna ci sono spesso piazzole proprio lì a fianco, lungo la strada: sarà che se lo aspettano, che la gente voglia immortalare questi momenti storici! Entriamo definitivamente in Wyoming intorno alle 17 e raggiungiamo Alpine un paio d'ore dopo, con un bel sole a scortarci in mezzo alle colline di betulle. L'unico campeggio cittadino costa un occhio (65,00 $ a notte!), e poiché abbiamo già intenzione di restare in campeggio a Yellowstone domani sera, ci spostiamo poco lontano, nel parcheggio di KJ'S, all'incrocio con la strada che domattina ci porterà verso Jackson. Il cielo arrossisce sul lago, si fa tardi in fretta e l'aria fresca concilia il sonno.
Agli altri.
Io, ovviamente, metto una maglia in più.
Venerdì 27 settembre
- da Alpine a Yellowstone (148 miglia)
La nottata scorre tranquilla, anche se prima dell'alba inizia a piovere e rende l'aria estremamente fredda (siamo a 8°C), tanto che dalla canottiera di ieri si passa alla doppia maglia a manica lunga. Il viaggio inizia dopo aver usufruito della dump station nel parcheggio di KJ'S (con donazione) e il rifornimento di benzina. Per fortuna lungo le miglia che ci separano da Moose (ingresso al Grand Teton National Park) esce anche una bava di sole, costeggiamo lo Snake River in un paesaggio mozzafiato, con pini ed alberi colorati lungo i fianchi delle montagne e le nuvole basse ancora appoggiate sulle cime.
Arriviamo a Jackson, una cittadina dall'aria old west piuttosto turistica, ma ci fermiamo per fare due passi: nel parcheggio cittadino gratuito c'è un bello spazio riservato a camper e veicoli di grosse dimensioni, quindi lasciamo il nostro rospo indisturbato per una mezz'oretta. La piazzetta principale è adornata da quattro grossi archi (ai quattro angoli) fatti interamente di corna di cervo, gli edifici attorno richiamano molto i villaggi in legno di montagna, sposandosi però con il fascino di una cittadina del selvaggio west americano. Peccato solo l'eccessivo traffico! La marcia prosegue dunque verso Moose, da dove entriamo dal toll del Grand Teton National Park. Da subito, il paesaggio alpino si mostra in tutta la sua magnificenza, con le cime appena innevate e i ghiacciai nascosti. Dopo un bel tratto di strada costeggiando il fiume, arriviamo al piccolo parcheggio di Jenny Lake lungo la Lupin Meadows Access, poco prima dell'embarcadero, dove ne approfittiamo per scattare qualche foto al lago, incorniciato dalle montagne come nelle nostre Alpi: stupendo è dire poco. Ci fermiamo per il pranzo poco oltre, nel parcheggio di String Lake. Per l'esattezza, i miei fanno pranzo ed io me ne vado passeggiando sul sentiero nel bosco di pini e betulle che costeggia il lago. String Lake è, di fatto, una sorta di lago-strisciolina che mette in comunicazione Jenny Lake e Leigh Lake. Entrambi i bacini d'acqua, perlopiù di origine glaciale sono circondati da sentieri, nei quali bisogna sempre stare attenti alla fauna locale... soprattutto orsi! A proposito di sentieri, dal parcheggio del camper, in cento metri appena si arriva allo String Lake, ed io resto senza fiato di fronte a tanta bellezza.
E' qui che il Grand Teton mette in scena il suo spettacolo migliore, con la sua cornice colorata di alberi, dalle conifere agli arbusti gialli, rossicci e color ruggine, passando per il grigio delle rocce con il cappellino bianco, e poi le sfumature azzurre dell'acqua sono un sogno: limpida e fresca che viene voglia di immergersi, mentre mi accontento di passeggiare nel boschetto ed imboccare i viottolini di pochi passi che di tanto in tanto si buttano sulla riva.
Che sarebbe, se gli occhi che non l'hanno vista potessero solo immaginarla, tanta bellezza? Raggiungo il Leigh Lake, altra meraviglia. Ancora qualche foto e rientro al camper in tempo per il caffè, accelerando il passo nel boschetto e battendo le mani per far rumore contro gli orsi! Lasciamo il parco nazionale in prossimità della Teton Lake Dam, e riprendiamo la strada fino alla South Entrance di Yellowstone: la foto d'obbligo all'insegna, sfoderiamo felici il nostro annual pass alla "rangeressa" e appena entrati nel parco, consultiamo il tabellone in legno con l'elenco dei campeggi: tra quelli già chiusi per la stagione, quelli pieni e quelli lontanissimi, l'unico abbordabile (anche come prezzo, dato che la tariffa è 15,00 $ - no hook-ups, niente docce... ma tanto non abbiamo bisogno di niente stasera!) sembrerebbe essere il Lewis Lake Campground, a pochi metri dal lago omonimo. Poche miglia ed arriviamo: il posto è un po' angusto, immerso nel verde, le piazzole tutte sterrate, ma ci accontentiamo: paghiamo, come di consueto da queste parti, mettendo le banconote nella bustina che troviamo nella cassetta all'ingresso, e teniamo il talloncino compilato con le generalità (nominativo, numero persone, targa veicolo, data di arrivo) da apporre al paletto della piazzola che abbiamo scelto. Con questo sistema possiamo uscire dal campeggio lasciando il posto comunque occupato, infatti ci dirigiamo subito al West Thumb Basin, a 20 km di distanza. Parcheggiamo, sono già le 17 passate e la luce inizia a cambiare. Una bella passerella in legno di circa un chilometro gira intorno alle fumarole e ai piccoli geyser, l'odore di zolfo è inconfondibile e mosso dal vento, e anche stavolta rimango senza parole, stravolta da come la natura possa creare uno spettacolo simile, meraviglioso e pericoloso allo stesso tempo. Le pools (le piscine) di acqua sulfurea sono principalmente blu, profonde da perderci lo sguardo, e se non sono blu sono comunque turchesi e dall'acqua meravigliosamente trasparente, tanto da perderci lo sguardo.
I bordi sono variopinti grazie agli ossidi e ai batteri che popolano la delicatissima crosta terrestre, i rigagnoli che sgorgano dalle piscine dipingono le rocce, l'acqua bolle sotto la superficie. Abbiamo avuto il nostro bell'assaggino di Yellowstone: torniamo al campeggio soddisfatti, dopo cena scendo col babbo nel buio per alcune foto alla via lattea aperta sopra le cime dei pini che ci circondano, ma al nostro rientro al camper ci vuole un tazzone di tè. Stasera metto il secondo piumone a letto perché sarà freddissimo, ma a giudicare dalle stelle, domani sarà una giornata limpidissima.*
* - le ultime parole famose.
Sabato 28 settembre
- da Yellowstone a Rexburg (192 miglia)
Nonostante la meravigliosa stellata di ieri notte, stamattina piove. Speriamo sempre nel miglioramento del tempo, visto che sono appena le 8 quando ci muoviamo ed abbiamo intenzioni molto belligeranti per questa giornata. In verità però, lungo le poche miglia al bivio per la 20 che porta all'Old Faithful, accenna persino neve, così, giusto per arrecare disturbo.
Affascinante come in poco più di due settimane siamo passati dal caldo dei finestrini nel deserto alla neve in quota, commentiamo noi. Peccato che la strada continui a salire e la neve abbia attaccato ai lati, sull'erba. Non sapendo come possa essere continuando il percorso, facciamo dietro front, perdiamo un'ora per ragigungere il toll da cui siamo entrati ieri sera e chiediamo info al ranger circa le previsioni meteo. Gentilissimo, ci dice che il punto più alto è Craig Pass, a 2400 metri, ma da lì in poi la strada è tutta in discesa e spiana sui 2000 metri, aggiungendo che, peraltro, la West Entrance è l'unico ingresso (dei cinque del parco) che è aperto praticamente tutto l'anno. Dopo un rapido calcolo, ne emerge che, qualsiasi strada volessimo fare per raggiungere Idaho Falls (prossima meta), se non passiamo per Madison Junction e l'entrata ovest, sono almeno 300 chilometri (e l'unica percorribile sarebbe quella che torna indietro fino ad Alpine). Siccome prendendo la strada dentro al parco ne risparmieremmo un centinaio buoni, decidiamo comunque di tentare: riattraversiamo dunque il toll, ripassiamo davanti al nostro campeggio e all'intersezione con il West Thumb visto ieri sera, sfidiamo la tormentina imprevista in quota ed il velo di neve attaccato sull'asfalto per almeno una ventina di chilometri. Appena la strada scende, gli alberi iniziano a riprendere il loro colore e la neve inizia a diminuire. Ci fermiamo a bordo strada per ammirare Isa Lake, grazioso laghetto con un vivace fogliame sulla superficie, circondato dagli alberelli innevati, e scattiamo qualche foto. Tiriamo un sospiro di sollievo dopo un paio d'ore impegnative, in cui siamo stati sul punto di mollare Yellowstone ed andarcene, quindi da adesso in poi possiamo dare uno sguardo ai siti principali. Ovviamente non abbiamo tempo di arrivare alle terrazze di Mammoth su a nord (anche perché, salendo intorno ai 3000 metri, non sappiamo nemmeno come possa essere il meteo), ma il nostro quarto di tour nel parco vale da solo l'aver rischiato. Poco più avanti parcheggiamo alle Kepler Cascades, dove un ponte ci mostra quattro salti di cascata giù nel canyon del fiume, e nonostante la neve a terra è già evidente che si scioglierà di lì a breve.
Arriviamo poco dopo al parcheggio del'Old Faithful, uno dei più grandi, e prevedibili!, geyser del parco. Sappiamo infatti che le sue eruzioni di acqua bollente sono generalmente ogni 70/90 minuti, e al Visitor Center espongono sempre la previsione per l'eruzione successiva. Per nostra fortuna, attendiamo pochi minuti sulla passerella, insieme ad almeno un migliaio di persone, al freddo (ha smesso di nevicare, ok... ma il freddo è pungente!), poi finalmente il geyser più famoso di Yellowstone dà spettacolo.
Nel nostro itinerario riusciamo a visitare il Black Sand Basin, ed il Biscuit Basin poco più avanti, che dà il meglio di sé con il Black Opal e la Sapphire Pool dal turchese intenso.
Proseguendo pochi chilometri lungo la strada, fermiamo il camper al parcheggio da dove parte il breve sentiero fino all'overlook del Grand Prismatic Spring, un altro cavallo di battaglia di Yellowstone.
Scendo in fretta, l'aria ha odore di neve e zolfo e, freddissima, mi schiaffeggia. Le ciglia si gelano, divoro un chilometro e mezzo di sentiero in dieci minuti, finché dal belvedere appare la piscina turchese, fumante, con i suoi mille colori attorno, dal verde al giallo all'arancio infuocato.
Certo che tra il cielo coperto ed il fumo che viene su dalle viscere della terra, non è proprio come lo avevo visto in foto, ma ha comunque il suo fascino: il suo diametro di cento metri è ben visibile dall'alto, mentre i suoi colori si diramano fin sotto la passerella in legno che raggiungiamo poco dopo, non appena torno al camper.
E' uno spettacolo girarci intorno, percorrendo la passerella tra le altre piscine turchesi. I raggi arancioni si allungano sulla grossa distesa calcarea e formano una patina che sembra "croccante", lucida, con mille sfumature. La meraviglia assoluta. Peccato che il tempo perso stamattina non ci permetta una visita più approfondita dei siti. Sarebbe da passarci una settimana, dentro Yellowstone, solo per ammirare in silenzio gli spettacoli che la natura è in grado di mettere in scena. Usciamo dal parco, come da previsioni di ieri sera, verso le 16. I nostri programmi sarebbero stati ben diversi, ma non possiamo lamentarci: per come si era messa stamattina, temevo di non riuscire a vedere nessuna di queste meraviglie. Poche miglia fuori dal toll (quello dell'uscita ovest passa nel Montana), siamo a Madison. Tiriamo dritto fino a Rexburg, sulla strada per Idaho Falls, dove Walmart ci aspetta per la notte. Entriamo per comprare zucchero, pane e dentifricio, ma ci mettiamo un'ora a causa del disordine, poi finalmente usciamo.
Siamo indubbiamente provati dalla giornata, ma forse più infreddoliti che realmente stanchi.
Domenica 29 settembre (209 miglia)
- da Rexburg a Twin Falls
Stamattina ci svegliamo riposati, nonostante la nottata da Walmart sia stata un pochino rumorosa all'inizio (era pur sempre sabato sera, e qualche auto che fa gara di velocità nel piazzale si incontra sempre...). Mettiamo benzina dal distributore di Walmart, appena scendiamo dal camper ci invade un freddo inaspettato: a Rexburg ci sono 2°C alle 8 di mattina, e non crediamo certo che a 30 miglia da qui sarà più caldo!
Ah, ma tanto prima o poi tornerà il deserto del Nevada!
Raggiungiamo Idaho Falls sotto un cielo nero verso le 9 e parcheggiamo comodamente a ridosso del Tempio mormone. L'aria è gelida, ma cerchiamo di non farci intimidire. Qualche foto alle panchine e alle statue di orsi e lupi lungo Greenbelt, "la cinta verde" attorno al fiume, poi, intirizziti, siamo costretti a riprendere il camper per spostarci sull'altro lato dello Snake River, quello che offre lo scorcio più bello sulle cascate, facenti parte del progetto idroelettrico.
La vista è magnifica, sia dal ponte che dal lungofiume, peccato che il freddo regali pochissima autonomia: tra il vento e la pioggerella, riusciamo a stare fuori una ventina di minuti al massimo in cui sparo tutte le cartucce possibili dal punto di vista fotografico (prendo anche il cavalletto!). Un po' amareggiati, usciamo da Idaho Falls ed imbocchiamo la I-15 verso Pocatello e di seguito Twin Falls. L'acquetta grassa tipica da neve ci accompagna per un po', ma alla fine, abbandonando le latitudini estreme dell'Idaho, il cima inizia a ripristinarsi. Ad American Falls ci fermiamo un attimo in prossimità della vecchia centrale idroelettrica, appollaiata su uno sperone roccioso, tra il ponte ferroviario ed il fiume (molto "urban decay"), e poi riprendiamo la nostra marcia.
Attraversiamo Register Rock, nei pressi del Lake Walcott, e poco oltre ci fermiamo per il pranzo. Finalmente, dopo aver attraversato l'Hansen Bridge ed aver ammirato il bellissimo canyon sullo Snake River dalle acque turchesi, arriviamo al parcheggio delle Shoshone Falls, a Twin Falls. Il parco è statale e quindi a pagamento (in realtà solo dal 1 giugno al 30 settembre), ma 5,00 $ per ciascun veicolo penso che possiamo tranquillamente spenderli! Nel frattempo la temperatura si è impennata fino ai 10°C e ci permette di scendere dal camper, lasciato nell'apposito parcheggio, senza ibernarci. Queste cascate sono 15 metri più alte di quelle del Niagara, e ci sono tre brevi sentieri per raggiungere vari punti panoramici. A noi bastano però i tre punti panoramici nel parcheggio centrale, delimitati da tre terrazzine perfette, da cui l'inquadratura per le foto è grandiosa: inutile dire che sono molto movimentate, con piccoli salti separati tra loro che si immettono in laghetti sottostanti fino al salto finale.
La portata d'acqua non è molta, dipende dalle esigenze idriche e ovviamente dalle stagioni, ma io le preferisco così, non cariche, con la possibilità di vedere i vari salti divisi tra loro. Nel complesso, qualcosa di veramente inaspettato... e non a caso, poco dopo di noi, arrivano due autobus di asiatici che si riversano sulle terrazzine. Proprio in quel momento, noi risaliamo a bordo e ce ne andiamo verso il Centennial Park, solo per vedere la cascata del Perrine Coulee, piccolo fiume che si riversa nello Snake River (ovviamente, nulla in confronto alle cascate viste poco fa!). La troviamo dietro il tornante che scende giù al piccolo parcheggio del parco, e risalendo non perdiamo l'occasione per un altro scenic overlook, quello dal Perrine Bridge, ponte di ferro affacciato sul canyon dello Snake River. Ricomincia a piovere, per oggi abbiamo finito i giri e ci sistemiamo da Walmart, che anche stasera diventa la nostra base per la notte. Dopo cena un piccolo briefing sulla prossima settimana (in cui si prevedono altre 1200 miglia comode!), stufa accesa almeno mezz'ora e io mi infilo sotto al doppio piumone.
Ah, ma tanto prima o poi tornerà il deserto del Nevada!
Lunedì 30 settembre
- da Twin Falls a Winnemucca (445 miglia)
Twin Falls stamattina -1°C. Ed io sono sveglia dalle 4.
Siamo operativi alle 8 o poco più verso Wendover, dove ci aspettano le Bonneville Salt Flats, distesa di sale usata per le gare di velocità famosa in tutto il mondo. Le saline di Bonneville sono il risultato del prosciugamento del Grande Lago salato preistorico che bagna Salt Lake City, che nel corso di milioni di anni si è, appunto, ritirato, lasciando scoperto lo strato di sale, un po' come il più famoso Salar de Uyuni in Bolivia. Attraversato il confine con il Nevada subito oltre Jackpot, il paesaggio non è cambiato molto: gli altopiani aridi sono spolverati di neve, le catene montuose in lontananza hanno le cime bianche e la temperatura esterna non sembra essere migliorata. E dire che io non aspettavo altro che rientrare in Nevada!
Arriviamo a Wells, congiunzione con la Lincoln Highway per Wendover, praticamente alle 10, perché nonostante le tre ore di marcia lungo la Great Basin Highway, sembra che il fuso orario sia cambiato di nuovo e ci abbia riportato a nove ore di differenza con l'Italia, quindi abbiamo recuperato un'ora. Misteri degli Stati Uniti. A Wells c'è una dump station ma non a buon mercato, quindi tiriamo dritto fino a Wendover, separato dal vicino West Wendover dal confine di stato dello Utah. La strada spiana e scopre finalmente il primo accenno di bianco e azzurro dell'immensa salina, che però non ci sembra uniforme. Imbocchiamo la Bonneville Speedway access Road che dovrebbe portarci all'inizio della piana di sale ed invece ci porta davanti ad un lago.
Bello, piatto e luminoso, ma pur sempre un lago. Della strada utilizzata per le gare, nemmeno l'ombra. Rimaniamo perplessi, torniamo indietro al vicino distributore di benzina e chiediamo informazioni al pakistano del chiosco, che ci conferma il nostro timore: la salina è completamente sommersa da un palmo d'acqua a causa della neve e delle piogge degli ultimi due giorni. "C'era una gara in programma domani, ma è stata cancellata a causa della situazione" mi dice. Siamo gli unici, praticamente, ad aver visto le Salt Flats con l'acqua sopra, al punto da credere di aver sbagliato luogo. Niente... tanti chilometri a vuoto.
Ce ne torniamo mesti verso Wells, e di seguito verso Winnemucca (un nome che fa simpatia). La giornata ormai diventa una semplice lunghissima tappa di trasferimento verso la California, con ufficialmente un'ora in più di differenza rispetto all'Italia. Ad Elko, dopo vari tentativi nei campeggi, riusciamo ad usufruire di una dump station al distributore della Shell (nei pressi dell'uscita 303 della I-80), dove la gentilissima ragazza del chiosco KJ'S ci fa pagare solo 3,00 $ anziché 5,00. L'operazione, dato un problema (non dipendente da noi) allo scarico delle nere/grigie, diventa pesante e lunga, ma alle 17 riusciamo a riprendere il tragitto, tirando il collo fino a Winnemucca, totalizzando circa 700 chilometri in un solo giorno, sotto un cielo che non ha fatto che modificare, dalla pioggia al sole e dalla neve alle nuvole scure. Rimaniamo esterrefatti di fronte alla via principale che ci porta fino al Walmart cittadino: piena di lucine, insegne sfavillanti, mille ristoranti e centordici casinò. Insomma, una sorta di mini Las Vegas che non ci aspettavamo proprio, per essere un paesello di settemila abitanti! Nel parcheggio di Walmart ci sono almeno una dozzina tra camper e roulottes, comprese quelle di dodici metri. E meno male che il cartello dica addirittura "no overnight parking". Seh, come no.
Sono le 19, il sole è tramontato da un pezzo e siamo distrutti da una giornata di viaggio. Forse, però, il driver di più.
Martedì 1 ottobre
- da Winnemucca a Sacramento (249 miglia)
Stamattina siamo pronti a partire alle 7.30 per raggiungere Carson City, sede del Nevada Railroad Museum con locomotive a vapore, per far felice il babbo con i treni. La giornata si preannuncia discreta, dai comignoli delle case attorno esce il fumo e sul vetro esterno del camper c'è anche un velo di ghiaccio. Direi che anche stanotte il freddo è stato intenso... ma per fortuna entro un paio di giorni raggiungeremo la costa californiana, e il gelo di questi giorni, si spera, sarà un ricordo! Lungo la I-80, praticamente poche miglia fuori da Winnemucca, attraversiamo un bel banco di nebbia fitto e subito dopo si scoprono davanti a noi una vallata di brina e le montagne innevate, finalmente illuminate dal sole. Durante la lunga trasferta ne approfitto per sistemare un po' di foto fatte in questi giorni, e ripercorro in un attimo questa prima metà del nostro viaggio, dal Joshua Tree all'Havasu Lake, dalla Route 66 ai parchi: abbiamo fatto tantissime cose, sembra una vita che siamo on the road e allo stesso tempo i giorni sembrano passati così in fretta.
A poche miglia da Carson City, su internet scopriamo che il museo ferroviario è chiuso e riapre giovedì. Il babbo si ammutina, deluso, mentre io e l'interfaccia ripianifichiamo in fretta un itinerario che includa musei ferroviari, visto che la zona ne è piena. Decidiamo quindi di passare per Sacramento, sede del California State Railroad Museum, aperto tutti i giorni fino alle 17. Essendo di strada, passiamo comunque davanti al Nevada Railroad Museum di Carson City, che nonostante abbia i padiglioni principali chiusi, ha anche un discreto spazio all'aperto con binari e un paio di vagoni. Ci fermiamo per il pranzo nel parcheggio, così il babbo dà un'occhiata all'esterno del museo: tre operai nei pressi lo salutano, scambiano due parole, e dopo averlo visto gironzolare un po', mossi a compassione, gli aprono un hangar e gli mostrano alcune locomotive. Secondo me, ancora una volta, il fatto di aver raccontato che siamo italiani li ha convinti. E ha ringalluzzito il babbo, che riprende felicemente la marcia verso Sacramento.
La statale 50 sale tra le montagne ed i pini, e riscende verso il Lake Tahoe. Ci fermiamo per alcune foto a Logan Shoals Vista Point, l'acqua del lago è di un blu intenso e la cornice verde gli rende giustizia. Poco più avanti, rientriamo ufficialmente in California e seguiamo la 50 dentro la Eldorado National Forest, costeggiata dall'American River. Quando arriviamo finalmente a Placerville, ritorna la congestione delle auto, ma siamo fuori dal tunnel di alberi altissimi. La congestione peggiora notevolmente quando entriamo definitivamente a Sacramento. Perdiamo un po' di tempo per visionare alcuni cosiddetti "campeggi", che in realtà sono abbastanza dismessi e scarni, poco più che favelas adibite a stanziali, con roulottes malandate. E, se vogliamo dirla tutta, hanno dei prezzi esagerati senza nessun servizio (passiamo da 45,00 $ a ben 62,00 $ senza nemmeno le docce). Alla fine, un po' controvoglia, ci fermiamo al parcheggio di Walmart anche stanotte, visto e considerato che domani ripartiremo. Nonostante le perplessità dovute alle dimensioni della città e a potenziali disturbi esterni, la nottata scorre tranquillissima.
Mercoledì 2 ottobre
- da Sacramento a Nice (128 miglia)
Avevamo intenzioni fantastiche per questa giornata, ma ovviamente va tutto a rotoli: la mattinata se ne va per cercare parcheggio, nonostante siamo arrivati in centro ad un'ora civile per tenerci un margine di tempo ottimo, proprio immaginando le difficoltà di parcheggiare un mezzo così grosso. Non vediamo altri camper in giro: troviamo un solo posto camper (un solo posto!) a 20,00 $ pagabili solo da app (spesso qui nelle città si paga con delle app collegate alla carta di credito). Molti altri parcheggi sono fruibili solo con permessi particolari (ad esempio residenti, studenti, staff di esercizi pubblici ecc), e lungo i viali non c'è mai abbastanza posto. Tra il traffico, i semafori rossi che ci fanno perdere tantissimo tempo, informazioni chieste senza ottenere riscontro e (magari) eccesso di onestà e diligenza da parte nostra che non parcheggiamo mai nel primo posto che ci capita, alle 11.30 arriviamo al California Automobile Museum, dopo suggerimento del gentile omino del Visitor Center. Ormai l'idea del museo ferroviario è andata in fumo, quindi decidiamo un tour tra gli edifici della Old Sacramento, il distretto storico nonché cuore turistico della città, a ridosso del waterfront. Camminiamo circa un chilometro, fino all'inconfondibile Tower Bridge sul fiume che dà il nome alla città. Tanto imponente quanto decisamente sgraziato, il ponte fu costruito nel 1935, in alluminio e materiali leggeri che vennero in seguito impiegati anche nella costruzione di altri ponti in California, e decisamente è un pugno in un occhio, considerando che poco più avanti si apre il "quartiere" della Old Sacramento: sono perlopiù botteghe ed edifici di fine Ottocento e inizi del Novecento, in mattoni rossi o con patio in legno dipinto.
Le insegne sono molto old fashion style, sia quelle in legno che quelle dipinte sui muri. Anche la vecchia ferrovia, ormai parte del famoso museo ferroviario, mantiene il fascino della corsa all'oro. Non a caso, Sacramento era un vero crocevia per i pionieri. Facciamo un giro tra le ombre delle verande, mangiamo una "slice of Old Sacramento" che ci costa un occhio, poi il babbo se ne va verso il museo dell'automobile, mentre io e la vergara raggiungiamo speranzose lo US Capitol, anche questo in perfetto stile washingtoniano. Peccato che sia quasi completamente impalcato e le foto risultino, dunque, una schifezza. Ci rivediamo al camper poco prima delle 16, prendiamo un caffè e ripartiamo. La West Side Highway ci porta fuori dal caos cittadino, oltrepassiamo Williams e viaggiamo fino al bordo nord del Clear Lake durante la golden hour che regala mille riflessi all'acqua. La nostra meta, non riuscendo ad andare oltre è Nice, con l’Aurora RV Park, un bel campeggio sul lago al quale telefoniamo in anticipo per sapere i prezzi.
Ci confermano 45,00 $ anziché 60,00, che già ci sembra altissimo, ma conveniamo che si fa notte in fretta e che, dopo la giornata di oggi, non ci va di sbatterci a trovare un parcheggio. Avendo doccia, full hookups e connessione wifi ci facciamo andare bene il prezzo e, una volta arrivati con il tramonto, ci accoglie Jackie, che ci fa posizionare sulla piazzola (in cemento) vista lago. Poco dopo il proprietario, Mike, ci viene a salutare e a dare il benvenuto, cordialissimo. Una bella doccia calda e uno shampoo fotonico concludono la giornata.
Giovedì 3 ottobre
- da Nice a Bodega Bay (190 miglia)
Stamattina dopo colazione approfittiamo della connessione internet per chiamare un po’ di gente a casa (via WhatsApp) e poi, effettuate le operazioni di carico e scarico, conosco Deborah, la ragazza che gestisce il campeggio. Appena mi sente parlare mi dice che adora il mio accento e mi chiede di dove sia. Ovviamente, l’essere italiani ci porta ad un trattamento di favore, e anziché i già scontati 45,00 $ ci fa pagare la metà della tariffa standard, cioè circa 36,00 $. Ottimo prezzo!
Dopo il salasso da Pomo Pumps, che comunque è il più economico della zona (qui in California le tasse statali sono altissime, quindi il prezzo della benzina è almeno un dollaro in più a gallone rispetto agli altri stati), finalmente siamo in viaggio verso Fort Bragg, prima tappa della costa, per visitare la Glass Beach.
Arrivo a ridosso della scogliera frastagliata, il vento fresco mette già i brividi, ma per fortuna è una bella giornata di sole. Le rocce di arenaria a picco sull’oceano blu e le ice plants che crescono rigogliose mi ricordano i paesaggi della costa del Portogallo. Una bella vegetazione cresce lungo il sentiero sabbioso, mentre nelle calette nascoste tra gli scogli cerco i vetrini minuscoli, mimetizzati tra i sassolini scuri. Mi raggiungono i miei, ancora quattro passi ammirando la bellezza della costa selvaggia (seppur piena di gente a cerare ancora vetrini colorati!) e poi verso le 15 ripartiamo, seguendo la Highway 1, ovvero la strada costiera, con ottimi scorci sull’oceano soprattutto tra Elk e Point Arena. Un cameo: nei pressi di Albion, poco prima, non manchiamo di cercare il cottage della “Signora in Giallo”, in cui si può anche dormire (notizia recente)! La strada si arrampica e riscende, la costa a nord di San Francisco è estremamente selvaggia, ricca di vegetazione (infatti non prende nemmeno il telefono!), e soprattutto molto elitaria, piena di casette sulla scogliera che da noi sarebbero super abusive! Purtroppo la strada non scorre, ci costringe ai 30 km/h e non ci gustiamo il tragitto perché il sole inizia a scendere e non abbiamo idea di dove poterci fermare. Cala il buio mentre arriviamo a Bodega Bay. Riusciamo a spegnere
il motore nel piccolo parcheggio di un negozio di alimentari, chiedendo il permesso ai ragazzi che ci lavorano, e nel frattempo torna anche la connessione internet.
Venerdì 4 ottobre
- da Bodega Bay a San Francisco (93 miglia)
La notte scorre tranquillissima, stamattina ripercorriamo qualche chilometro all’indietro per ammirare, finalmente, qualche scorcio sul mare che ieri sera abbiamo perso per via del buio, come Arched Rock Beach e Wright’s Beach, anche se in verità sono tutte spiagge belle, selvagge con scogliera a picco su una sabbia granulosa di minuscoli sassolini colorati e levigatissimi.
La zona più affascinante è Duncan’s Cove Overlook, su Duncan's Point: una bella vista sull'infinita distesa azzurra dell'Oceano Pacifico, che già il solo pensiero ci risulta così affascinante, ed un bel prato di ice plants rosse.
Verso le 10 siamo già in viaggio verso sud. Lasciamo la Highway 1 e ci buttiamo sulla strada di collegamento alla 101 verso San Francisco. Ci fermiamo da Safeway (qui il nostro fedele Walmart non c’è), ad una trentina di miglia, e facciamo il punto della situazione sui campeggi. Dopo il pranzo, una estenuante ricerca e mille telefonate di cui novecento a vuoto, approdiamo al Treasure Island RV Park, ad una dozzina di miglia a sud di San Francisco. Per raggiungerlo, attraversiamo l’iconico Golden Gate in tutta la sua magnificenza (in serata, dall’apposito sito internet pagheremo 7,95 per il pedaggio!) e costeggiamo la grossa spiaggia bagnata dall’oceano Pacifico, fino a rientrare in superstrada per un tratto. Il traffico è insopportabile, ma cadiamo praticamente dentro il grosso parcheggio camper, all’apparenza curato e profumato. Diciamo che la scelta di favorire un parcheggio custodito è stata dettata dal fatto che in una città così grande non eravamo certi di voler dormire chissà dove, né soprattutto possiamo sapere se ci facciano storie (ad esempio, nelle grosse catene di supermercati non vogliono camper né roulottes a causa dei numerosi senzatetto). Dopo un po’ di problemi alla reception (dovevamo necessariamente aver prenotato con almeno 24 ore di anticipo e sembrava ci fossero problemi con il server che doveva inviare via mail la ricevuta per procedere al pagamento), alla fine riusciamo a venirne fuori, spendendo 200,00 $ per 3 notti (contro i 240,00 $ previsti), che salderemo lunedì mattina alla partenza. Non c’è wifi, ma abbiamo docce calde, elettricità, attacco acqua e scarichi. E’ un salasso ma è la cosa più economica che riusciamo a trovare, e peraltro pagheremmo 200,00 $, con un risparmio di ben 40,00 $ perché non abbiamo effettuato il pagamento online. Non avendo cash, anziché lasciare i soldi nella cassettina esterna chiediamo la possibilità di pagare direttamente a lei lunedì mattina al check-out (dato che sabato e domenica è chiuso).
Cosa importante, la cosa più vicina al centro: teoricamente con i mezzi pubblici ci vogliono “solo” 40 minuti. La fermata di South San Francisco dista un chilometro netto, e in poche fermate saremo in pieno centro città. Peccato che di biglietti cumulativi non ce ne siano... e già sappiamo che questa città (in cui siamo arrivati il giorno dell’omonimo santo!) ci costerà un occhio della testa.
Sabato 5 ottobre
- San Francisco (2,5 miglia – a piedi!)
Nonostante la voglia di mangiarci San Francisco, stamattina non arriviamo alla stazione BART (il treno) di South San Francisco prima delle 9, e ci mettiamo almeno mezz’ora per capire che tipo di biglietti fare per raggiungere, intanto, il centro, ovvero la Bay Area. Una corsa costa 4,50 $, ci sono degli sconti di oltre il 50% per i seniors, la clipper card che può essere usata su ogni mezzo di trasporto, il visitor pass di un giorno o tre ma valido solo per i trasporti della rete Muni (tram, cable car e bus)... ma in ogni caso nessuno dei tanti è una soluzione economica. L’unico a guadagnarci, almeno in parte, è il babbo, comunque facciamo impazzire la tipa al box informazioni, simpatica ed estremamente disponibile, ma poveraccia! Usciti dalla stazione BART ci troviamo sulla via che ci porta al Ferry Building, brulicante di gente, di bancarelle ed etnie, tanto che inizio subito a parlare con un venditore ambulante che vive qui ma è originario di Città del Messico. Del resto San Francisco è una vera babele, un crocevia di razze ed ideologie: il 20% sono asiatici, i restanti sono perlopiù sudamericani o altro. La metà della popolazione (750 mila abitanti circa) è bianca.
Non dimentichiamoci che è inoltre una delle città che ha fatto dell’integrazione degli omosessuali la sua bandiera: qui ognuno è libero di esprimersi, i gay ricoprono posizioni alte nella società e, finalmente, non si sentono ghettizzati. C’è chi dice che tutta questa tolleranza derivi da un pensiero comune che si è fatto largo tra la gente all’inizio del secolo scorso, quando un violento terremoto rase al suolo gran parte della città: da allora, il motto suona un po’ come “non sappiamo quanto tempo saremo ancora su questo pianeta, non ci è dato sapere come e se sopravviveremo... Tanto vale vivere alla giornata!”
C’è tanta gente in giro, nella zona più turistica e famosa di San Francisco, l’aria è calda e noi camminiamo fino al Pier 33, fermandoci praticamente ovunque a scattare foto: i moli sono stati riqualificati, rimodernati, ed ognuno è particolare a suo modo. Alcuni sono accessibili al pubblico che può arrivare fino alla fine delle lunghe passerelle in legno sulla baia. Al Pier 33 partono i tour per Alcatraz, il carcere di massima sicurezza rimasto operativo fino agli anni Sessanta e reso ancor più famoso dal celebre film: se ne sta su un’isoletta a 15 minuti di battello dalla terraferma, peccato che i tour siano tutti sold out fino a lunedì, altrimenti io e mamma ne avremmo approfittato. Dopo aver mangiato qualcosina di rapido, arriviamo al Pier 39, il molo più popolare, che di fatto è un tripudio di persone, colori, negozietti e ristoranti.
La struttura del molo stesso è perlopiù in legno, su due piani, estremamente caratteristica a ricordo di un periodo che non esiste più. Questo è il posto ideale per comprare qualche souvenir... e per ammirare i leoni marini, che vengono a riposare nella baia dall’inizio degli anni 90. Questi simpatici pinnipedi sono famosi soprattutto per l’essere giocherelloni e per... il loro “abbaiare” in modo estremamente rumoroso!
A Ghirardelli Square, poche centinaia di metri più avanti, non ci facciamo mancare un giro sul cable car della famosa linea Hyde-Powell. I cable car sono la rete tranviaria a trazione funicolare, ultima al mondo del suo genere. La rete, considerata un'icona della città, trasporta annualmente più di 6 milioni di persone, molte delle quali sono ormai turisti.
Delle 23 linee attivate tra il 1873 e il 1890, ne sopravvivono oggi soltanto tre: due collegano Union Square con il quartiere di Fisherman's Wharf mentre la terza si snoda lungo California Street. Nel 1966, la rete è stata inserita nel National Register of Historic Places. Peccato solo le attese infinite! I tram sono generalmente lenti, e il cable car impietosamente affollato: ci mettiamo oltre un’ora per salire a bordo, guadagno la postazione migliore fuori dal vagone, nello spazio riservato all’omino che aggancia e sgancia il freno di questo particolarissimo ed unico mezzo di trasporto.
Il tramonto fa la sua parte, mentre saliamo e scendiamo lungo i binari delle ripide strade di San Francisco, quasi come sulle montagne russe. Il cable car ci porta a Powell, da dove riprendiamo la BART per il campeggio, e la giornata finisce qui.
Domenica 6 ottobre
- San Francisco (5 miglia – a piedi!)
Anche stamattina arriviamo in stazione comodi, e aspettiamo pure un po’ perché, essendo domenica, alcune linee BART sono soppresse ed i treni sono diradati. Scendiamo a Powell, sperando di usufruire del cable car per un altro giro spettacolare come ieri sera, ma la fila qui è allucinante. Ci spostiamo dunque sulla linea diretta di California Street, decisamente meno inflazionata, e riusciamo a salire in tempi brevi. Il viaggio non è bello come l’altro, ma ugualmente divertente.
Il babbo scende a metà tragitto per raggiungere il museo del cable car (ci accordiamo per ritrovarci per il pranzo al Pier 45), mentre io e mamma proseguiamo fino a fine corsa, e al ritorno scendiamo alla Grace Cathedral, una bella chiesa insolita all’interno di questa architettura: di fatto è un chiesa gotica all’interno, ma senza i fronzoli esterni tipici dell’architettura gotica europea (la facciata ricorda, in realtà, la Cattedrale di Notre Dame di Parigi, con due torri gemelle a pianta quadrata). Optiamo per un giro all'interno, e rimaniamo subito estremamente sorprese dalle lunghe colonne che sorreggono le volte del soffitto, illuminate dal sole che entra attraverso le vetrate coloratissime e crea giochi di luce meravigliosi.
C’è la messa in onore di San Francesco, e un gentile signore (che cerca di appiopparci un flyer informativo) ci spiega che oggi il prete dà la benedizione anche agli animali: ecco scoperto il perché in chiesa ci siano, infatti, anche diversi cani. Cose curiose, ma più curiosa è la “donazione suggerita di 10 o 20 dollari" (che onestamente ci sembrano un’esagerazione!).
Riprendiamo il cable car quasi al volo e raggiungiamo Lombard Street, anzi, per l'esattezza il tratto più famoso di questa lunga via di San Francisco è Russian Hill composto 8 da ripidi tornanti che hanno regalato alla via il riconoscimento di "strada più tortuosa del mondo":
questo tratto è stato istituito nel 1922, per la necessità di ridurre la pendenza di 27° (cioè il 51%) della collina; questo tratto è lungo 400 m su una pavimentazione di mattoni rossi, siepi di ortensie e rose ai lati, mentre una scalinata lo costeggia sia a destra che a sinistra. E' riservato solo per il transito delle vetture in discesa ed il limite di velocità consentito in questo tratto è di 5 miglia l'ora (circa 8 km!). Questo limite, ovviamente, è stato superato solo nelle scene d'inseguimento con auto di vari film polizieschi americani di cui questa famosa strada è stata il set. La gente si accalca ai lati, cerca di fare foto arrampicata sui muretti, stecche selfie e braccia allungate con le fotocamere per la panoramica più bella, ma niente da fare: qualsiasi tentativo tu faccia, sappi che non riuscirai a vedere più di due curve di Lombard Street, a meno che tu non abbia un drone (e non è escluso che sia vietato!).
Percorriamo la scalinata in discesa, lungo la strada tortuosa, osservando le macchine che scendono una dietro l’altra come un serpentone, e la ripercorriamo in salita per riprendere il cable car fino a Ghirardelli Square. Invogliate dal fatto che adesso sembra ci sia poca fila, decidiamo per un altro tour. A differenza di ieri che c’erano trecento persone ammucchiate e nemmeno un vagone, oggi abbiamo cinque vagoni e poca gente (sarà che è l’ora di pranzo). Nonostante tutto aspettiamo 45 minuti e finalmente raggiungiamo Powell, il capo opposto con il famoso turnaround del cable car come quello di Ghirardelli Square. Per ritornare al Pier 45 all’appuntamento con papà (per il quale siamo già fortemente in ritardo) decidiamo di prendere uno dei tram storici (ce ne sono una trentina sulla linea tramviaria di San Francisco, e commemorano 33 città del Nord America in cui questi operavano), sperando che velocizzi i tempi, ma nemmeno a pensarci: ci ritroviamo, insomma, che sono già le 15. Mangiamo i nostri paninetti al volo, e cerchiamo di fare il punto della situazione: decido di sganciarmi per raggiungere il Golden Gate, per il quale non ci sono mezzi da qui, ma almeno 6 km a piedi (che i miei non riuscirebbero a percorrere in tempi brevi), inizio a camminare, promettendo ai vecchi di riportare foto.
Divoro la strada, tra lo zaino in spalla e il tempo perso per le foto, fino a raggiungere la marina. Di fronte, come ricordavo, il bellissimo Palace of Fine Arts, dove è impossibile evitare di fermarsi: è il posto ideale dei fotografi, e becco anche una coppia di sposini asiatici! Costruito per esporre le opere presentate in occasione dell Esposizione internazionale Panama-Pacifico di San Francisco del 1915, questo edificio fu ricostruito negli anni sessanta, è un bel padiglione che ricorda le architetture greco-romane tipiche a colonne, con un tempietto centrale ed un grazioso laghetto artificiale. La scelta di collocare la struttura vicino ad un bacino idrico non è casuale: l'architetto volle infatti far sì che l'edificio si riflettesse sull'acqua come alcuni edifici classici europei. Durante i primi anni del nuovo millennio, l'edificio è stato anche rinnovato e gli furono poste delle misure di adeguamento sismico.
Senza trattenermi troppo, riprendo la marcia rapida verso il Golden Gate, oltre il parco, fino al bar con la terrazzina con vista ponte, ed inizio a salire lungo il trail che mi porta fino in cima. Approfitto degli overlook per scattare le più belle foto che posso al famosissimo ponte rosso di San Francisco, e poi riprendo il bus n.28 che mi porta (in un’ora) a Daly City, dove riprendo la metro fino a South San Francisco senza farmi mancare un suggestivo tramonto tra le nuvole dalla banchina del treno, e poi recupero i miei.
Feedback generale: da dieci anni ad oggi, ho trovato San Francisco molto peggiorata a livello di viabilità e mezzi pubblici, estremamente più caotica di ciò che ricordavo. Tempi morti infiniti sui tram o i bus per andare da un punto all’altro: è questo, principalmente, il motivo che mi ha fatto scegliere di percorrere sei chilometri a piedi dal Pier 45 al Golden Gate, con la certezza che in un’ora sarei arrivata, anziché cercare il bus n.30, aspettare alla fermata, doverlo cambiare poi al Golden Gate Park (già fuori dalla traiettoria) con il n.28 e stare ferma in piedi come una sardina. La clipper card poi, innovativa ed interessante se si pianifica una visita di almeno tre giorni, ma troppo costosa: noi non siamo riusciti ad ammortizzare la spesa, anche perché va bene che include i giri sul cable car (che altrimenti costerebbe 7,00 $ ogni viaggio), ma le file per salire a bordo riducono notevolmente le possibilità di sfruttare il costo del biglietto. Qualsiasi altro mezzo, di certo ha meno fila, ma non è meglio!
Lunedì 7 ottobre
- da San Francisco a Marina (113 miglia)
Stamattina aspettiamo l’arrivo della tipa in reception (che anziché arrivare alla 9 arriva alle 9.40!) e paghiamo le nostre spettanze. Dopo un po’ di problemi poiché sembra che CruiseAmerica abbia prelevato 200,00 $ a notte causa mancato pagamento (nonostante avessimo detto che avremmo pagato lunedì), riusciamo a venirne fuori, per fortuna. Resta il fatto che la tipa alla reception è scortese ed altezzosa, è sembrata anche poco incline ad aiutarci (benché alla fine sia riuscita a risolvere il problema... e ci mancherebbe pure!) e questo non è piaciuto proprio. Riprendiamo la marcia, già abbastanza in ritardo, ci fermiamo a Palo Alto per una foto doverosa al cartello, essendo un polo tecnologico rinomato nonché, in realtà, una città che a casa nominiamo spesso (non dimentichiamoci che siamo nella Silicon Valley). Approfittiamo del negozio di AT&T lungo la strada per cambiare piano telefonico per uno meno costoso, nonostante sia comunque 65,00 $, e di seguito ci dirigiamo da Walmart per una dignitosa spesa, visto che abbiamo praticamente finito ogni scorta (con la scusa che “non compriamo troppe cose, altrimenti poi avanzano”). Pranzo all’ombra degli alberi nel parcheggio, caffè, e riusciamo a spostarci solo alle 15. Scendiamo fino a Santa Cruz, che dista circa 45 miglia, lungo la 17. Rimettiamo benzina al 76 Om’s Market (3,83 $ è il prezzo più basso che possiamo fare in California!) e finalmente, dopo una giornata di peregrinazioni immani, riusciamo a parcheggiare il camper e fare due passi per non buttare la giornata.
E’ tardi per essere presto e presto per essere tardi, è un orario intermedio che non consente grosse trasferte dato che alle 19 è buio quasi pesto, perciò ci facciamo giusto una passeggiata nella cittadina con l’intento di spostarci verso sud prima di notte. Becchiamo un piccolo parcheggio di fronte al Santa Cruz Wharf, fortunatamente senza divieti.
Il parchimetro prende solo quarti di dollaro, e a parte costare 1,50 $ l’ora si fa fatica anche a cambiare due dollari in banconote dai baretti locali. La sua particolarità è che non viene rilasciato alcun biglietto: essendo digitale, sul display compare il tempo per cui è stato pagato il posteggio, quindi parte una sorta di conto alla rovescia.
La promenade lungo l’ampia spiaggia è un di localini, residence e una sala giochi enorme piena di luci, ma la vera chicca è l’enorme Luna Park, il Santa Cruz Broadwalk, come spesso capita ai moli californiani riqualificati (famosi sono quelli delle spiagge di Los Angeles). In realtà al momento è chiuso, ma ci regaliamo comunque una camminata vista mare lungo le giostre e supponiamo sia un luogo popolare, dal momento che c’è parecchia gente che, come noi, passa il tempo a scattare foto, un po’ come nei luna park abbandonati. Ripartiamo per percorrere altre 40 miglia raggiungendo Marina in perfetto orario, dopo il tramonto sulla palude, e ci sistemiamo nel parcheggio di Walmart (ormai in questo viaggio abbiamo praticamente alternato soltanto campeggi e Walmart!). Tra l’altro ci sono alcuni camper che, evidentemente, resteranno per la notte, il che ci rende più tranquilli.
Martedì 8 ottobre
- da Marina a Visalia (218 miglia)
Stamattina, freschi e riposati, alle 8 siamo in viaggio verso Monterey, che dista 8 miglia. Parcheggiamo in un grosso spazio ovviamente a pagamento (2,00 $ l’ora per rv... porca zozza) a ridosso del caratteristico Old Fisherman’s Wharf, ma vale la pena scendere per fare due passi.
Il molo è in legno, come del resto la babele di negozietti di dolciumi e souvenirs e ristorantini. Ogni locale è dipinto con colori sgargianti, dal rosa all’azzurro, dal giallo all’arancione, ma ricorda molto i moli dei pescatori di metà Ottocento, così come la struttura, con palizzate in legno a sostenere il molo. Peraltro, Monterey è un paese in cui l’immigrazione italiana, ci racconta il distinto signore del negozio di dolciumi all’angolo, è stata fortemente sentita in quegli anni e anche all’inizio del secolo: non a caso, il monumento del pescatore che si trova in fondo al molo sulla terrazza affacciata sulle barchette è stato voluto ed istituito da famiglie italiane, come a ringraziare la città per l’ospitalità e l’integrazione.
Usciamo dal parcheggio e percorriamo la strada che ci porta, poco più avanti, al grazioso quartierino di Cannery Row, dove però non riusciamo a fermarci (e ci accontentiamo di qualche foto dal finestrino). Un miglio appena fuori dal centro abitato, inizia invece Pacific Grove, ovvero una bella litoranea dalla costa frastagliata e sbriciolata di grosse rocce levigate, fino a raggiungere Lover’s Point, un promontorio con due piccole insenature. E’ un luogo molto popolare ma rilassante allo stesso tempo.
C’è un’area pic-nic sul prato ombreggiato, una scaletta che conduce alla spiaggia bianchissima e all’insenatura turchese dell’oceano. Da sottolineare gli innumerevoli scoiattoli che scorrazzano lungo le rocce e cercano cibo: sono simpaticissimi, e basta fare un cenno con la mano, come a porgere dei semi o delle noci, perché si avvicinino...
Occhi sempre ben aperti perché, in quanto roditori, se mordono le dita (anche inavvertitamente, dato che è la loro natura) possono fare abbastanza male. Dopo alcune miglia di costa selvaggia di rocce tonde e sabbia bianca, imbocchiamo la strada per la 17 Miles Drive e scopriamo che è a pagamento (cosa inaspettata), e considerando che dobbiamo solo attraversarla senza soffermarci più di tanto, deviamo sulla 68 direttamente per Carmel by the Sea. Ardua impresa il parcheggio vista pineta, quindi costeggiamo un chilometro di Scenic Drive e troviamo posto per fermarci per il pranzo.
C’è il sole ma l’aria è decisamente fresca, e dopo il caffè scendiamo per due passi lungo la spiaggia, sul vialetto alberato. Da un lato la sabbia bianca ed il mare mosso dal vento, dall’altra una fila di casette molto graziose, e sicuramente appartenenti a persone benestanti. Tutti dovremmo avere una casa (o una vita) vista mare.
L’unico inconveniente è che nel frattempo (tre quarti d’ora in tutto!) è scesa una coltre di nebbia fitta che ha cancellato il sole e ha raffreddato l’aria. Rientriamo al camper giusto dopo una mezz’oretta e tiriamo fino a Visalia a circa 200 miglia. Ovviamente il paesaggio cambia subito fuori dalla cittadina, e l’oceano azzurro lascia il posto a colline color sabbia e prati aridi, per poi tornare al verde delle vigne e degli alberi. La 198 dal fondo malconcio ci accompagna lungo il Diablo Range fino alle porte della prima cittadina, dove ritroviamo la civiltà e, pochi chilometri dopo, il Walmart di Visalia per la notte.
Mercoledì 9 ottobre
- da Visalia a Oakhurst (231 miglia)
Stamattina partiamo felici per il Sequoia National Park: da Visalia, 35 miglia ci dividono dal toll sud.
Il paesaggio in questa zona è variegato, collinare e verdeggiante, molto simile a qualcosa ammirabile anche in alcune zone europee. Costeggiamo il Kaweah Lake, originato da una diga, e poco avanti, oltre Three Rivers con un paesaggio di prati verdi, raggiungiamo l’Ash Mountain Entrance per iniziare i nostri 80 chilometri tra i redwoods più famosi d’America. O, almeno, questa era l’idea: la rangeressa (un po’ svogliata per la verità) ci avvisa che i veicoli più lunghi di 6,5 metri (22 ft) sono “altamente sconsigliati” nel tratto di strada delle sequoie giganti (che inizia poche miglia oltre). Raggiungiamo dunque il Visitor Center ad un chilometro di distanza e, non sapendo nulla di queste restrizioni, chiediamo info. L’omino ci dice (e ripete, date le mie insistenze!) che è preferibile non attraversare i passi di montagna all’interno del parco nazionale con mezzi così grandi per una questione di traffico sulla strada, e perché il percorso è stretto, fortemente in pendenza e tortuoso (vedendo la mappa del parco questo era evidente, ma non pensavamo che fosse così impegnativo!). Che poi, chissà che significa “altamente sconsigliati”. In base a cosa? In base a quale esperienza di guida? Rassegnati, ci vedremmo costretti a tornare indietro a Visalia (avevamo fatto questa strada per poter proprio entrare dal lato sud ed uscire dal lato nord), prendere la 63 e poi la 180, finché non decidiamo di tentare un’ennesima alternativa: la J21 dopo il lago visto stamattina, che incrocia, dopo 20 chilometri, con una tortuosa California state road 245, che però riteniamo sia spiccia da traffico e quindi più facilmente accessibile a manovre, senza considerare che per arrivare a Grant Grove Entrance (entrata nord del parco) sembra la strada più corta e più breve a livello di tempo. Sconsideratamente, imbocchiamo quella che sulle mappe è una stradina bianca! La prima parte è semplice, tortuosa il giusto, ma di fatto è una single track come quelle già sperimentate in UK, con spallette per agevolare il transito in entrambi i sensi di marcia. In 50 chilometri di percorso estremamente lento, contiamo 15 macchine, un furgone e un camper, più un gruppo di motociclette: decisamente non la strada più trafficata del mondo, insomma. Al toll nord (quello che di fatto è l’entrata del Kings Canyon in comune con il Sequoia) tiriamo un sospiro di sollievo, soddisfatti della scelta (anche se ha guidato il babbo!). Siamo completamente immersi nel verde e senza in minimo segnale telefonico, ovviamente. Ora: le sequoie ci sono anche qui (benché siamo nella zona del Kings Canyon) e dato che avremmo 75 chilometri di strada tortuosissima per scendere fino al Generale Sherman, purtroppo lo “tagliamo” fuori. Ci sono due o tre punti molto interessanti da vedere qui, ad esempio il Big Stump Trail (subito dopo l’ingresso), in cui fa bella mostra un tronco tagliato di almeno due metri di diametro.
Ci addentriamo giusto cento metri nel sentiero, sufficienti a scorgere le prime sequoie giganti. Nella zona di Grant Grove, due chilometri più avanti sempre sulla strada del Kings Canyon, c’è un percorso dedicato al General Grant, altra bella sequoia antica, eletta Christmas Tree negli anni Sessanta. Tre punti di interesse in questo breve percorso di poche centinaia di metri: la nostra sequoia gigante, con la cicatrice dell’incendio che ne ha parzialmente scavato una sezione di tronco, il Centennial Stump, la base di una sequoia tagliata negli anni Trenta dal diametro di oltre un metro e mezzo, ed il Fallen Monarch, che merita davvero uno sguardo: è un tronco di sequoia completamente cavo, nel cui interno si può passare a piedi: sono pochi metri ma sembra di entrare davvero nel cuore di questi alberi. L’ora di pranzo arriva in fretta, complice anche la strada che ha impedito di compiere grossi spostamenti in breve tempo, e dopo il caffè decidiamo di dare giusto una breve occhiata ad un paio di punti panoramici sulle montagne di sequoie e di riprendere la strada verso l’uscita del parco. Percorriamo la 180 per poi risalire la 41 ed avvicinarci all’entrata sud di Yosemite. Da tenere presente che, oltre il paesello di Fresno, non c’è praticamente nulla: quello sarebbe il nostro ultimo barlume di speranza. Noi deviamo in direzione del Bass Lake, dove sembrerebbe ci sia un’area gratuita che ovviamente è chiusa (quindi di fatto non esiste più), quindi, dopo essere tornati indietro lungo la strada già buia ed aver visionato un paio di rv park costosissimi ed inconcludenti, torniamo ad Oakhurst. Ci fermiamo, ormai senza speranze, nell’ampio parcheggio del supermercato Vons.
Tradendo ovviamente Walmart!
Giovedì 10 ottobre
- da Oakhurst a Ellery Lake (132 miglia)
Stamattina, con un’aria freddissima, alle 8 ripartiamo per entrare finalmente a Yosemite National Park. Per fortuna sembrerebbe essere una bella giornata, quindi speriamo che il sole non fatichi a scaldare, anche a 2500 metri. Lungo la strada ci fermiamo una decina di minuti presso la Sugar Pine Railroad, un binario a scartamento ridotto con un paio di vagoncini (per la gioia del babbo). Subito dopo il toll sud, ci fermiamo al parcheggio del Mariposa Grove Visitor Plaza, dove una navetta ci porta in pochi minuti nel cuore del boschetto di sequoie giganti (il Mariposa Grove, appunto).
Ci sono diversi percorsi, dal più breve di una ventina di minuti al più lungo di circa tre ore: in un paio di chilometri noi abbiamo modo di vedere il Grizzly Giant, altra importante sequoia del parco, e il fotografatissimo California Tunnel, una sequoia perfettamente in piedi ma cava all’interno. La Wawona Road, lunga circa 50 chilometri, ci porta poi fino alla Yosemite Valley, il vero cuore del parco nazionale. Appena iniziano a scoprirsi le montagne ci rendiamo conto di una strana foschia che sale dalla vallata, fino a scoprire che la state road 140 è chiusa al traffico causa incendio. Ci fermiamo subito dopo la breve galleria nel parcheggio della Tunnel View, per scoprire il panorama meraviglioso tra il Capitan e l’Half Dome, le due montagne che dividono la vallata. Ecco un’altra delle cose che mi ha lasciata praticamente senza fiato in questo viaggio...
Una visione stupenda, peccato solo che sia annebbiata dalla foschia dell’incendio. Raggiungiamo il parcheggio della Bridalveil Fall, altissima cascata ma, purtroppo, a causa della stagione non è molto carica d’acqua (anzi è piuttosto una scia trasportata dal vento). Di seguito, parcheggiamo per il pranzo accanto al Sentinel Bridge, poco distante dal percorso che porta alle Yosemite Falls. La vista è superba anche qui.
Lascio dunque i miei e raggiungo il trail per la Lower Yosemite Fall, circa un chilometro, attraverso un campo dorato che lascia scoperte le montagne di granito, illuminate dal sole: a quest’ora, una passeggiata è davvero piacevole perché finalmente l’aria è tiepida (non dimentichiamoci che siamo intorno ai 2500 metri di quota!). Appena entrata nel boschetto mi accorgo, però, che il paesaggio di rocce levigate che si estende attorno a me lungo il sentiero e le passerelle di legno è evidentemente il letto di un fiume in secca, infatti anche la Lower Yosemite Fall praticamente non c’è. La montagna che svetta al suo posto è imponente e magnifica ugualmente, ma ecco... mi aspettavo un po’ d’acqua. Torno alla base, riprendiamo la marcia per uscire sulla 120, ma non possiamo esimerci dalla vista più straordinaria del fondo valle: quella della Valley View, un angolino in cui le montagne si specchiano nell’acqua ferma del Merced River, dove i colori dell’autunno riempiono il panorama e mi incantano. Mi sembra quasi di aver trovato il mio posto nel mondo. Trovo che le foto mi abbiano spesso aiutata a descrivere quello che ho visto durante i miei viaggi (in camper e non), ma ecco, durante questo tour americano mi sono spesso accorta che no, le foto non bastano, che gli occhi divorano paesaggi ed immagini dove non arrivano parole, e vorrei essere in grado di descrivere ciò che vedo ma non ci riesco. Perché non è possibile.
Usciamo sulla 120, la Tioga Road, che risale fino a 2850 metri circa. Alla ricerca disperata di un campeggio (dato che sono praticamente tutti chiusi), arriviamo fuori dal parco nazionale, costeggiando Ellery Lake che è già crepuscolo. Peccato, perché l’ultimo tratto di strada che riscende è davvero mozzafiato, e con questa luce crepuscolare non si vede molto. Ci fermiamo ad un triste Moraine Campground, l’unica cosa rimasta aperta in questo periodo. Ci sono alcune piazzolette sterrate e un po’ in pendenza, una macchina con la roulotte unica ospite a parte noi. E’ buio e non vogliamo allontanarci, anche perché abbiamo deciso che domattina torniamo a vedere gli ultimi 20 chilometri della Tioga Road con la luce del giorno. Compiliamo il solito bigliettino da attaccare al paletto della piazzola ed infiliamo 14,00 $ nella busta. Sto posto comunque non merita nemmeno cinque dollari.
Venerdì 11 ottobre
- da Ellery Lake a Lone Pine (187 miglia)
La nottata è abbastanza movimentata: la stufa con il suo dispositivo “anti assideramento” si accende ogni mezz’ora, siamo costretti a far partire ben due volte il motore del camper solo per accertarci che la batteria non vada troppo giù, e continuiamo a svegliarci. Come se non bastasse, è tornato anche l’amico cicalino che non sentivamo da tanto.
Disperati, alle 7.30 abbandoniamo la piazzola storta e torniamo ai bordi di Ellery Lake per fare colazione. L’aria esterna è gelida, il sole è sorto già da almeno un’ora ma le montagne ed i ghiacciai, troppo alti, non sono ancora illuminati. Per scattare qualche foto ci congeliamo le dita, e peraltro il bordo del lago è davvero ghiacciato: supponiamo che la temperatura stanotte sia scesa comodamente sotto zero. Nel frattempo il sole illumina le montagne, offerendo un paesaggio bellissimo: riprendiamo la strada fino a Lee Vining dove ci fermiamo al Visitor Center del Mono Lake. Esploriamo, grazie alla mappa che ci danno, la Old Marina, scoprendo qualcosa in più su questo lago alcalino di origine vulcanica. L’odore di zolfo in questa zona è insopportabile, ma le prime formazioni tufiche ci strizzano l’occhio, anche se la parte più bella è il Mono Lake South Tufa, circa 20 chilometri più avanti lungo la route 395, dove arriviamo con l’annual pass. Un percorso di un chilometro si snoda sinuoso tra formazioni calcaree, come grosse stalagmiti tra una vegetazione color senape e giallo con sfumature di sabbia, che profuma di miele e fieno. Le spettrali torri di tufo delimitano le acque chiare di questo bacino, ad alta quota nel deserto a est della Sierra Nevada, che milioni di anni era nettamente più esteso. Questo lago approvvigionava l’area di Los Angeles negli anni Quaranta: la deviazione verso il nuovo acquedotto della città dei fiumi che riempivano il Mono Lake aumentò la salinità del lago (poiché ovviamente le acque dolci confluivano a Los Angeles), mettendo a repentaglio il delicato ecosistema ma, al tempo stesso, abbassando drasticamente il livello dell’acqua, tanto da scoprire queste meraviglie rimaste addormentate sul fondo. Da quando è stata istituita la Riserva Naturale nel 1981, il livello del lago ha via via ripreso a crescere. Non mancherà molto che queste meravigliose cittadelle di tufo verranno di nuovo sommerse dall’acqua.
Verso mezzogiorno ripartiamo lungo la route 395, deviando sull’anello di June Lake: una ventina di chilometri corre attraverso quattro o cinque laghetti, molto pittoreschi con gli alberi già parzialmente coperti d’autunno. Ci fermiamo sulle rive del June Lake per il pranzo, e subito dopo usufruiamo della dump station (10,00 $) al piccolo toll che ci ha condotti al parcheggio del lago. Riprendiamo la marcia, ancora una deviazione per i Mammoth Lakes, piccoli specchi d’acqua circondati da montagne con ghiacciai e campeggi molto “wild”, dove la gente pesca sui gommoni e si rilassa all’ombra degli aspen.
Nei pressi di Bishop ricarichiamo il propano all’AmeriGas del Paiute Palace Casinò (c’è un distributore di benzina e anche la stazione del propano), dove approfittiamo anche del prezzo della benzina (relativamente meno alto che in tutte le tappe californiane), quindi raggiungiamo Lone Pine. Siamo sistemati con lo scarico e abbiamo tutti i serbatoi pieni, e raggiungiamo Portagee Joe Campground (un campeggino sterrato trovato tra le nostre app che sembra fare al caso nostro) che è incredibilmente ancora giorno. Peccato che sia interamente riservato ad un gruppo di cowboy con i cavalli... che fortuna! Pochi minuti dopo intravediamo alcuni camper in un’area di parcheggio dietro al museo dedicato alla storia dei film western... e decidiamo di fermarci anche noi.
Sabato 12 ottobre
- da Lone Pine a Pahrump (229 miglia)
Oggi, dopo un’altra nottata bella fresca, omaggiamo il giorno della scoperta dell’America dando l’assalto alla Death Valley. Si narra che questo nome derivi da un pioniere, che fu tratto in salvo insieme al suo gruppo di uomini dopo essersi smarrito tra queste zone impervie a metà Ottocento: erano 9, uno di loro non sopravvisse. Una volta fuori pericolo grazie ai due ragazzi che li avevano soccorsi, voltandosi a guardare le vallate, il pioniere salutò con un “goodbye, death valley”. E da allora, questi altipiani rimasero “la valle della morte”. Che comunque, di mortale sembra abbia ben poco: il paesaggio si mostra variegato, sin dai primi chilometri della 190 che ci porta fino al primo overlook sul Rainbow Canyon, di origine vulcanica. Poco più avanti, da Father Crowley Viewpoint (un chilometro di sentiero dal parcheggio) si ammira invece il paesaggio di calanchi ed altopiani fino alla distesa di sabbia che attraversiamo in camper poco dopo: le montagne che circondano il percorso, in un continuo saliscendi, sono piuttosto colorate, da un delicato ocra al rosso acceso.
Ci fermiamo a Mesquite Flat Sand dunes viewpoint, dove mi addentro a piedi nudi tra le dune di sabbia (assieme a decine di persone!), incorniciate un orizzonte di rocce multicolori. La sabbia, tra l’altro, è chiara e luccica sotto i raggi del sole, come se fosse mescolata a glitter impalpabili. Ci fermiamo per il pranzo al parcheggio dell’Harmony Borax Works, nel Mustard Canyon: c’è un trail interpretativo a ricordo di quella che era una raffineria fino alla fine dell’Ottocento (operò per 5 anni in queste zone aspre), e una carrozza a due vagoni in legno fa bella mostra: era trainata da un gruppo di 20 muli e veniva utilizzata per il trasporto di merci e metalli raffinati. Al Visitor Center di Furnace Creek, 3 miglia più avanti, prendiamo finalmente la mappa del parco (perché non essendoci un toll all’ingresso, nessuno ci ha dato una mappa prima di adesso) e ci dirigiamo subito a Zabriskie Point (poco oltre sulla east 190), uno dei punti più fotografati della Death Valley, e non è difficile capire il motivo: calanchi e canyon si spalancano dal muretto dell’overlook (a 100 metri dal parcheggio) con mille sfumature illuminate dal sole di una giornata calda, in un paesaggio quasi lunare da togliere il fiato.
Torniamo alla deviazione con la 178, la Badwater Road, che scoppia di colori con la Artists Drive, una strada panoramica a senso unico di una decina di miglia, che vale assolutamente la pena: in questo angolo dell’altopiano è la Artists Palette, le continue eruzioni vulcaniche hanno depositato cenere e metalli lungo i pendii spigolosi delle rocce, e a contatto con acqua e vento nel corso dei millenni si sono ossidati, modificando quindi i loro colori. Si intravedono il rosso del ferro, il verde pastello, il bianco, il rosa ed il viola: sembrano quasi colorate con i gessetti.
L’ultimo stop è il Badwater Basin, il punto più basso dell’America continentale, a 85 metri sotto il livello del mare. Anche questo era un lago salato ormai prosciugato, di cui è rimasta una grossa lingua bianca di sale (ormai calpestata talmente tanto da essere grigia, poiché è il punto più facilmente raggiungibile dal parcheggio adiacente)) ed un’ampia area visibile anche dalla strada. Sul fianco di una montagna alle spalle della lingua di sale, una targa posta a 85 metri d’altezza indica il livello del mare. Gli ultimi 50 chilometri oltre il Badwater Basin si “appiattiscono” un po’ rispetto al tripudio di forme e varietà di tutta la strada percorsa, ma per fortuna la golden hour ancora dona quel colore magnifico alle formazioni rocciose che ci accompagnano all’uscita, fino a Shoshone. Passiamo il confine di stato con il Nevada, e la 178 diventa 372 (misteri!). Ancora poche miglia ed arriviamo e Pahrump ci fermiamo da Walmart, compriamo due cose e, ovviamente, ne approfittiamo per passare la notte!
A cena tracciamo il bilancio della giornata. Una poesia preistorica infinita, questa Death Valley, qualcosa che a parole non si può descrivere. Nell’immaginario collettivo, questo posto è un deserto sconfinato e noioso in cui il caldo ti uccide. In realtà, con questo tripudio di colori e cambi continui di paesaggio, è estremamente movimentata ed interessante.
Altro che “Valle della morte”... questa è la Valle della Vita!
Domenica 13 ottobre
- da Pahrump a Las Vegas (131 miglia)
Stamattina la nostra prima tappa è Hoover Dam, la più famosa diga degli Stati Uniti, al confine tra Nevada ed Arizona. Arriviamo verso le 11, dopo circa 130 chilometri di strada. C’è una specie di dogana dove fanno fermare tutti i mezzi più grossi e ci controllano, ma non sono poliziotti armati, e anzi sono molto gentili e sorridenti e ci danno anche indicazioni su dove parcheggiare. Poco oltre, infatti, la strada sale e ci sono diversi camper parcheggiati. Scendiamo sui vari overlook e passeggiamo sulla diga, ammirando le colonne portanti con le turbine da un lato, e la profonda protezione in cemento armato, istituita nel 1935, dall’altro lato della strada. C’è tantissima gente, ci perdiamo un’ora, poi dietro front verso Las Vegas. Il nome Las Vegas deriva da un termine spagnolo che significa "i Prati". Nella zona esistevano infatti dei pozzi d'acqua che tenevano in vita alcune aree verdi. Per decenni Las Vegas fu stazione di sosta per le carovane di pionieri dirette in California.
Arriviamo su Boulder Hwy e ci fermiamo da Pizza Hut per pranzo, ormai una tappa obbligata dei nostri viaggi all’estero da diversi anni, e poco più avanti abbiamo il Las Vegas at Sam’s Town RV park, della catena KOA, dove abbiamo prenotato in mattinata. Costo dell’operazione, complessiva di sconto CruiseAmerica, 35,00 $. Un prezzo decisamente accettabile per il full hookups e le docce. Ci sarebbe anche il wifi, ma la connessione non si rivelerà essere tra le migliori. Purtroppo perdiamo lo shuttle bus gratuito delle 14:20 che parte dal vicino Sam’s Town Casino, e siccome il prossimo parte dopo 4 ore, optiamo per Uber.
Sono le 16 quando il simpatico Bradley ci porta fino alla famosa insegna “Welcome to Fabulous Las Vegas”, da dove iniziamo la nostra camminata risalendo il South Las Vegas Boulevard, ovvero la famosa strip. C’è gente in fila per la foto di rito sotto all’enorme ed iconica scritta, e poco più avanti becchiamo diverse coppie alla piccola West Little Chapel, dove si celebrano matrimoni a raffica, con sottofondo musicale alla Elvis, gente in vestiti di lustrini e applausi. Niente da dire, tanto la città di Las Vegas è famosa per essere la capitale del divertimento, dello shopping e del gioco d'azzardo, in rivalità con la paragonabile città di Reno.
La legalizzazione del gioco d'azzardo negli anni Trenta portò all'avvento degli hotel e dei casinò per i quali Las Vegas è famosa in tutto il mondo: da allora
ha visto uno sviluppo economico costante e privo di grosse crisi, ed oggi sta vivendo un vero boom: la sua economia è tra quelle che stanno crescendo di più negli Stati Uniti. Passeggiamo lungo i marciapiedi pieni di gente, su e giù per le scale mobili e i ponti sulla strip che collegano gli sfarzosi hotel tra loro. Tra gli altri, l'Excalibur Hotel & Casino, il Tropicana, il New York-New York Casino & Resort, con un piccolo rollercoaster integrato e la replica della Statua della Libertà.
Arriviamo al resort Bellagio (una delle chicche di questa oasi del divertimento in mezzo al deserto), che ogni mezz’ora propone uno spettacolo con le fontane danzanti a tempo di musica, da Bocelli a Lady Gaga.
Ce n’è sempre per tutti i gusti, a Las Vegas. L’ultima parte della nostra visita alla strip, essendo ormai buio, è dedicata alle foto alle sfavillanti luci delle insegne, a caccia degli angoli migliori per immortalare i panorami. Per quanto questa città sia una farsa in mezzo al nulla, bisogna ammettere che è divertente e diversa, e merita una visitina. Se non si è interessati al gioco d’azzardo né all’alcol, ci si può tranquillamente trascorrere una giornata camminando tra i musicisti che rallegrano i bar, tra la gente seduta a sorseggiare cocktails, o magari a cena in qualche ristorante che propone spettacoli di magia, acrobazie tipo Cirque du Soleil o le simpatiche cene con delitto.
Riprendiamo lo shuttle bus ad Harrah’s (anche se dobbiamo attraversare interamente il padiglione del casinò per uscire sul lato del terminal dei bus e dei taxi, ma la cosa peggiore è che, arrivati a Sam’s Town Casino, a 400 metri dal nostro KOA, sbagliamo direzione e ci ritroviamo nel KOA gemello che dista invece 800 metri. Insomma, questo gigantesco padiglione di Sam’s Town Casino ha due campeggi ai lati, entrambi della stessa direzione. Sembrano brevi distanze, ma in realtà ci impieghiamo una vita a coprirle, senza contare la stanchezza dopo una giornata di passeggio. Promemoria per la prossima volta: controllare i nomi delle vie prima di iniziare a camminare! Riusciamo a ritornare al campeggio dopo aver percorso tipo un chilometro e mezzo praticamente intorno ad un isolato, ma anche oggi è stata una giornata produttiva.
Lunedì 14 ottobre
- da Las Vegas a Barstow (171 miglia)
Stamattina briefing impegnativo di ricognizione sul da farsi da qui a sabato: abbiamo guadagnato un giorno intero di margine sulla nostra tabella di marcia, metà della periferia est di Los Angeles brucia a causa degli incendi delle ultime 48 ore, tra il deserto del Nevada e la nostra meta finale non c’è praticamente nulla di interessante... e perdipiù dobbiamo cercare un campeggio per almeno l’ultima notte americana. Alla fine decidiamo (con poche alternative e tenendo in considerazione la distanza per raggiungere poi Carson la mattina del 19 ottobre) per il Bolsa Chica State Park, dopo un lungo parto di 20 minuti per “creare un account” con la receptionist all’altro capo del telefono, facendo lo spelling di ogni lettera, da nome e cognome all’indirizzo di casa in Italia. Costo dell’operazione: 63,00 $, full hookups, dump station e docce. E per il 18 ottobre siamo a posto. Valutiamo anche alcune alternative per i due giorni che trascorreremo in visita a Los Angeles, sperando che miracolosamente si possa incastrare tutto, ed usciamo dal KOA per un breve stop ad acquistare alcuni souvenirs sulla strip. Il babbo ci scarica davanti ad un paio di negozietti, da dove riemergiamo un’ora più tardi. Ci siamo notevolmente dilungati, perciò riprendiamo rapidamente la I-15 fuori Las Vegas. Poco dopo le 15, attraversiamo l’ultimo confine di Stato e rientriamo in California, decidendo la sosta notturna a Barstow. Questa cittadina californiana di 20 mila abitanti è uno dei nuclei urbani della Route 66, infatti ospita il museo omonimo... che con la nostra solita sfiga nel settore è chiuso fino a venerdì, e con esso anche quello della Western America Railroad.
Intanto, comunque, noi ci fermiamo al Walmart cittadino per la notte... e diciamo addio al nostro "norma zero", che, dopo quasi un mese di onoratissimo ed indispensabile servizio, ci abbandona smettendo di funzionare.
Una prece.
La famiglia tutta in questo luogo pose.
Martedì 15 ottobre
- da Barstow a Rosemead (150 miglia)
Stamattina, dopo una visita di ricognizione alla stazione ferroviaria per vedere le locomotive esterne al museo, facciamo un giro lungo Main Street, un tripudio di murales sui muri degli edifici, da quello di Rosita’s (il ristorante messicano) al bellissimo dedicato alla Mother Road che abbellisce un muretto nei pressi del Route 66 Motel, decisamente pittoresco. Spostiamo poi la nostra attenzione sulla città fantasma di Calico, poco distante (l’unica cosa degna di nota nei dintorni). Sorta come città mineraria nel 1880, conobbe una rapida ascesa grazie alle miniere di borace e argento ed arrivò a contare oltre mille persone (un gran numero per l’epoca), ma con la stessa rapidità decadde a causa dei giacimenti scoperti nella Death Valley: nei primi anni del Novecento, pertanto, il paese fu praticamente abbandonato, per essere poi restaurato nel dopoguerra, recuperando così un po’ del suo splendore: questa sorta di museo a cielo aperto vuole essere d’intrattenimento per grandi e piccini, ma anche un tuffo nel passato per capire le abitudini, vedere come vivevano le comunità da queste parti, in mezzo ai giacimenti minerari, in un territorio che poteva essere anche ostile. Si paga un ingresso di 8,00 $ a persona, ma è una piacevole visita: l’intero nucleo sembra essere stato strappato ad un film western, ed è esattamente ciò che l’occhio di un turista vorrebbe vedere.
L’architettura è interamente in legno, carrozze e diligenze sono parcheggiate tra cholla e cactus. Alcuni edifici sono originali, altri ricostruiti seguendo minuziosamente lo stesso disegno, come la scuola ed il piccolo municipio. Tra l’altro, finalmente, la temperatura è intorno ai 30° e fa caldo: questo è decisamente il viaggio con il tempo migliore in assoluto, a parte una giornata dal clima eccessivamente incerto e variabile ed una con la neve!
Torniamo Barstow per riprendere la Route 66 per alcuni chilometri (fino a Victorville), e lungo il percorso ci fermiamo ad ammirare il Bottle Tree Ranch, all’apparenza un’inaspettata accozzaglia di vetro e ferro, che si rivela essere una sorta di boschetto in cui gli alberi sono fatti, appunto, da bottiglie di vetro infilate a rami di ferro. In cima ad ogni “albero” c’è un oggetto, una macchina da scrivere, un fucile, un segnale stradale, una ruota di carro. Qualcosa di insolito ed affascinante, un po’ come il Lakeside Storage in cui siamo casualmente incappati sullo Utah Lake. L’ingresso è libero, e c’è un pozzo in cui lasciare eventuali donazioni... e almeno un paio di dollari se li merita tutti.Arriviamo a Rosemead verso le 17.30 e ci fermiamo presso il solito Walmart, anche se c’è scritto “no overnight”. Abbiamo cercato un punto intermedio abbastanza vicino al quartiere di Hollywood, che prevediamo di visitare con calma domani, e con il tempo che oggi ci resta pianifichiamo varie alternative per la visita (dove parcheggiare, come spostarci ecc), cercando di creare dei “cuscinetti” alternativi nel caso in cui i nostri piani si stravolgano, e dopo cena capatina dei vecchi a comprare i panini. Alle 23, mentre siamo già appisolati, ci bussano quelli della sicurezza che fanno i giri di ronda e ci dicono che non possiamo restare nel parcheggio di Walmart: ci suggeriscono di spostarci di fronte, sotto la Wells Fargo, dicendoci che ci daranno un’occhio anche loro che, tanto, devono fare i controlli notturni. Ci spostiamo e, quasi quasi, ci sentiamo anche più tranquilli.
Mercoledì 16 ottobre
- da Rosemead a Hollywood (25 miglia)
Stamattina partiamo rassegnati ad affrontare il traffico della metropoli... e meno male che le nostre giornate iniziano presto! Per arrivare al famosissimo quartiere di Hollywood, distante appena 20 miglia, ci mettiamo praticamente un’ora, tra semafori rossi e traffico lentissimo. Dal nostro WikiCamps ci risulta un public parking della Chase Bank sul Sunset Boulevard a 25,00 $ per 24 ore, quindi ci dirigiamo lì con la speranza che non sia farlocco, e con estremo stupore scopriamo che esiste!
Il simpatico omino al chioschetto risulta molto disponibile, ci dice che possiamo restare senza problemi, quindi parcheggiamo e paghiamo al parchimetro fino a domattina alle 9.20. Il posto è comodissimo, a 500 metri dall’Hollywood Boulevard e dalla fermata della metro Hollywood/Vine (ed è inoltre sicuro, dato che è sorvegliato h24 – cosa particolarmente apprezzata nelle grosse città!).
Il nome Hollywood (che significa letteralmente "bosco di agrifogli") sarebbe stato coniato nel 1886 dall'imprenditore Hobart Johnstone Whitley, definito il "padre di Hollywood" per le grandi opere che realizzò
da queste parti, come l'Hollywood Hotel e la banca.
Ci mettiamo in cammino, e all'angolo prendiamo l'Hollywood Boulevard, meglio noto come Walk of Fame:
osserviamo con interesse tutte le stelle sotto i nostri piedi, da Dean Martin a Lauren Bacall, da Gina Lollobrigida a Orson Wells. Ci sono proprio tutti! Dopo la tappa d’abitudine al negozio di souvenirs, raggiungiamo il famoso Chinese Theatre, attualmente noto con il nome di TCL Chinese Theatre (il nome attuale è divenuto ufficiale nel gennaio del 2013, dopo che la TCL Corporation ha acquistato i diritti sul nome). Tra le caratteristiche più peculiari del teatro vi sono i blocchi di cemento fissati nel piazzale, che recano le firme, le impronte delle mani e dei piedi di personaggi popolari del mondo dello spettacolo dal 1920 ad oggi.
Arriviamo fino alle 4 Ladies, all’angolo del grosso incrocio “dove tutto ha inizio”, poi torniamo alla metro di Hollywood/Highlands per raggiungere la fermata di Universal City, sempre sulla linea rossa: da lì possiamo usufruire di una graziosa navetta gratuita blu che ci porta fino agli Universal Studios, ma solo per la passeggiata nella “città”, dato che l’ingresso al parco costa tipo 120,00 $. Le foto d’obbligo sotto al tipico logo del mondo che gira, foto alle fontane e a tutte le insegne luminose, e poi riprendiamo la metro e torniamo alla base. Il biglietto costa 1,75 $ per un viaggio di 2 ore, ma paghiamo anche 2 dollari ciascuno di tap card, un biglietto in plastica ricaricabile. Domani lo caricheremo con 7,00 $ per il pass giornaliero.
Giovedì 17 ottobre
- Griffith Observatory, Santa Monica e Venice Beach
Anche stamattina usciamo di buon’ora, dopo aver pagato il posteggio per altre 24 ore. Questo posto ci ha ispirato fiducia da subito, lo abbiamo trovato ordinato, sicuro e molto più pulito di altri in giro. E poi, essendo così vicino alla metro, ci permette di spostarci bene. Oggi iniziamo la visita della città dal Griffith Observatory, raggiungendo la fermata metro di Vermont/Sunset e da lì il bus della linea DASH, che a 50 cent ci porta in cima alla collina. Peccato un paio di cose: il servizio DASH è pessimo, aspettiamo alla fermata quasi un’ora prima di poter salire a bordo... e la vista dalla collina dell’osservatorio, benché molto suggestiva, è estremamente nebbiosa.
La skyline di Los Angeles si intravede appena, avvolta in una cappa di smog, ed il cielo sull’orizzonte non è limpido. Meno male che almeno la collina di Hollywood riesce a salvarsi, così come tutta la natura circostante. Avendo perso parecchio tempo per salire all’osservatorio, riscendiamo alla fermata metro alle 11.30 Prendiamo ancora la linea rossa fino al downtown di Los Angeles e cambiamo con la linea Expo, azzurra, fino a Santa Monica. Dopo tre quarti d’ora, finalmente riusciamo a scorgere la spiaggia ed il famoso pier gremito di gente. Non è una giornata calda come ieri ma è molto umida comunque, e l’odore del mare arriva fino sulla passerella in legno, che percorriamo avanti e indietro.
Tra le attrazioni degne di nota, a parte il luna park con le montagne russe e la ruota panoramica, come dimenticare il cartello che indica la fine della mother road Route 66? Davanti al Bubba Gump Shrimps & co, che fa il verso a Forrest Gump (secondo la “leggenda” raccontata nel film), c’è anche la panchina con la valigia e la scatola di cioccolatini, proprio come nel film.
Dall’altro lato della strada, entriamo al Tongva Park, un bello spazio verde pavimentato con palme altissime e fontane, un vero angolo di paradiso. Quasi al volo, dalla 2nd street prendiamo il bus 733 per raggiungere Venice Beach e facciamo un giretto tra i canali (il motivo per cui questa località è intitolata alla nostra famosa Venezia). Ovviamente, è un quartiere residenziale in cui, a giudicare dalle villette con patio e barchetta, vivono solo poveracci e morti di fame!
Ancora quattro passi lungo la Venice Boardwalk e nel frattempo il sole si abbassa. Torniamo a prendere il 733 per Santa Monica, ci attardiamo perché per 40 minuti non ne passa nemmeno uno, poi ancora tre quarti d’ora per tornare da Santa Monica al downtown di Los Angeles. L’ultima metro sulla linea rossa ci riporta fino alla fermata di Hollywood/Vine e in tutto abbiamo totalizzato tipo 5 ore sui mezzi pubblici!
Dopo cena, il pennarello traccia l’ultima parte del nostro itinerario sulla cartina degli Stati Uniti, ed il nostro giro è completo. Con una punta di amaro per questa avventura praticamente giunta al termine, decidiamo per domani mattina una capatina a Beverly Hills con il camper, sulla strada verso Huntington Beach.
Per allungare il più possibile il tempo, come a volerlo fermare.
Venerdì 18 ottobre
- Beverly Hills e Huntigton Beach (50 miglia)
Stamattina, come da programma, lasciamo il nostro parcheggio sul Sunset Boulevard e ci concediamo un giretto per Beverly Hills. In realtà, più che un giretto, è una toccata e fuga per qualche foto al Beverly Hills Park e a Rodeo Drive, la via più famosa del quartiere, con negozi costosissimi, consacrata icona dal film “Pretty Woman”. Chi non ricorda la scena di Julia Roberts che cammina per Rodeo Drive cercando vestiti per la cena con Richard Gere?
Poco dopo siamo in viaggio verso Huntington, ci fermiamo per pranzo sulla spiaggia di Bolsa Chica, e subito dopo entriamo al Bolsa Chica SB Campground (che di fatto è un semplice parcheggio su asfalto, prenotato pochi giorni prima) per iniziare a radunare le cose, pulire, preparare le valigie ed avere tutto pronto per domani mattina. I nostri vicini di piazzola, intanto, dopo aver conosciuto papà alle prese con i cavi per attaccare l’elettricità, ci portano del pan de mais, e converso qualche minuto con Lizzie, americana originaria del Messico.
L'ultimo tramonto americano è così, con i piedi nell'acqua dell'oceano Pacifico.
Per l’ora di cena ne veniamo finalmente a capo, e come dolcetto ci regaliamo il pan de mais alla cannella ed il muffin che Lizzie ed Ernesto ci hanno portato.
Sabato 19 ottobre
- da Huntington Beach a casa
L’ultima colazione di questo viaggio.
Diamo l’ultima bella pulita al pavimento in linoleum dopo aver spicciato, regaliamo ai nostri vicini di piazzola tutti i nostri prodotti avanzati, come candeggina, sgrassatore, la bacinella per il bucato... e la moka: loro ne avranno sicuramente più bisogno, dato che sono spesso in giro in una di quelle roulottone giganti che abbiamo visto per tutto questo tempo! Restiamo a parlare qualche minuto ancora, ci ringraziano continuamente per i “regali”, e poi niente... giunge il momento di svuotare definitivamente i serbatoi alla dump station, mettiamo benzina quel tanto che basta per riportare la lancetta dell’indicatore nella stessa posizione in cui lo abbiamo preso (come da contratto) ed arriviamo alla sede di CruiseAmerica a Carson, dove tutto è iniziato 38 giorni fa. Riconsegniamo il camper in perfette condizioni (quasi più pulito di quando lo abbiamo preso!), l’assistente è molto gentile e ci congeda in pochi minuti, e contattiamo Uber per raggiungere l’aeroporto. Charles è un simpatico autista di New Orleans, magro e sorridente: parla (velocissimo!) e gesticola proprio come un jazzista, e ha anche la faccia da jazzista in effetti! In mezz’ora siamo al Tom Bradley International Airport, smaltiamo le operazioni di imbarco bagagli e ci mettiamo in attesa.
Apre il gate. La gente si incammina dentro l’aereo.
Allacciamo le cinture.
Rullaggio, rincorsa. L’aereo si stacca dal suolo.
Salutiamo così Los Angeles, la California.
Gli Stati Uniti.
Dopo undici ore, attese infinite, un autobus fino a Civitanova Marche, adesso possiamo dirlo: siamo ufficialmente a casa, e porteremo per sempre con noi il ricordo di queste terre sconfinate, della cordialità della gente, del “sogno americano” che, per noi, stavolta è diventato reale.
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Thanks to:
- CruiseAmerica
- Walmart
- Great Value (nostra la marca preferita)
- gli autisti di Uber
- Lizzie ed Ernesto
- i bicchieri di polistirolo
- le banane a prezzo modico
39 giorni totali fuori casa
7 Stati toccati (California, Arizona, Nevada, Utah, Colorado, Idaho, Wyoming)
12 parchi nazionali visitati (esclusi quelli statali di minore importanza)
6120 euro per l’organizzazione del viaggio (noleggio camper, voli a/r, assicurazione medica
integrativa, assicurazione bagagli e annullamento viaggio, passaporti, ESTA e biglietti bus - il tutto x 3 pax)
1912 dollari di benzina, pari a 605 galloni (2286 litri)
4,43 km/litro: consumo medio del camper
6314 miglia percorse, per un totale di 10160 chilometri (pari alla distanza in volo tra Los Angeles e Roma)
730 dollari di derrate alimentari
521 dollari per campeggi, aree sosta e dump station
921 dollari per spese extra (trasporti e pedaggi, souvenirs, sim card, ed ingressi vari)
Tanti GB di foto
Clicca qui per visualizzare l'itinerario!
Bellissima vacanza, grazie per aver condiviso. Pensavamo di organizzare un viaggio simile e il vostro resoconto ci sarà utilissimo. Buona strada!
RispondiEliminamarisa e gianni Asti
Grazie mille a voi per essere passati qui!
EliminaFelicissima di esservi stata utile! :)